L’ex ambasciatore Bascone a TPI: “Sono un pacifista ma Putin ha varcato il confine. Solo la Cina può fermarlo”
"Anche se non inviassimo armi a Kiev, non saremmo esonerati dal danno economico del conflitto": a TPI parla l’ex capo dei nostri ambasciatori all’Osce
Francesco Bascone, ex ambasciatore italiano a Cipro, in Jugoslavia e capo permanente presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea a Vienna, secondo lei una pace in Ucraina oggi è possibile?
«Partiamo col fare una premessa. Parlando dell’Ucraina, c’è stata una discussione abbastanza accesa – soprattutto nei primi mesi del conflitto – sugli errori o sulle omissioni dell’Occidente. Omissioni che hanno contribuito ad acutizzare questo antagonismo tra Russia e Occidente stesso. Su questo punto all’inizio della crisi c’era chi rievocava questi errori ed è stato accusato di filo-putinismo. Alcuni in effetti sì, sono andati troppo nella direzione di portare acqua al mulino di Putin, ma alcuni di noi, invece, si sono visti rinfacciare una volontà di trovare attenuanti all’aggressione di Putin».
Questo conflitto ha creato uno spartiacque profondo: su ogni cosa, o si sta di qua o di là. E chi non partecipa al gioco è tagliato fuori. Una polarizzazione eccessiva che poco tiene conto della complessità della guerra. È così?
«Il discorso su ciò che l’Occidente ha mancato di fare per prevenire questa guerra si può anche applicare alle ultime fasi pre-invasione, cioè quando c’era una forte pressione militare per ottenere una sottomissione dell’Ucraina. Ma oggi non è più così: ora che la guerra è in corso, non si può applicare questa analisi delle cause del risentimento russo, anche razionali, alla ricerca di soluzione di compromesso».
E adesso che si fa?
«Ora che Putin ha passato il Rubicone non credo che il rimpianto per aver trascurato la prevenzione ci possa spingere a dire che tutto sommato la ragione è a metà da una parte e a metà dall’altra, o che bisognerebbe proporre una pace di compromesso, in cui lui si prende mezza Ucraina. Questo passaggio logico non si può fare. In questo momento abbiamo di fronte a noi un conflitto, nel quale le distruzioni avvengono soltanto in un territorio, i morti militari sono da entrambe le parti, ma i morti civili sono tutti dalla parte dell’aggredito».
Dunque, come si fa ad uscire da questa guerra?
«Molti dicono: “Fermo restando che noi siamo per il principio di sovranità e integrità territoriale, bisogna che le parti si mettano a un tavolo, negozino e si mettano d’accordo”. Ma questa è una contraddizione in termini».
È stato legittimo abbattere una parte del ponte Kerch?
«Facilissimo rispondere. Abbiamo una parte che inizia un conflitto armato e lo conduce esclusivamente sul territorio dell’altra parte. Da molti mesi, giorno dopo giorno, sta distruggendo infrastrutture utili per questo Paese, che sono centrali elettriche, linee di trasmissione di elettricità, ponti, strade, ogni sorta di impianti, non soltanto basi militari, ma anche ospedali, case, scuole. Sarà stato saggio o meno provocare l’altro, che è più forte, distruggendo un pezzetto del ponte che ha un valore simbolico, quindi uno schiaffo a Putin. Non si può assolutamente incolpare gli ucraini di avere alzato il livello del conflitto con questo attentato».
Quindi il ponte diventa un target legittimo perché è un asset strategico?
«Certo».
Considerandolo un asset strategico, e permettendo che l’Ucraina compia azioni offensive, e non più solo difensive, di fatto stiamo innalzando anche noi il livello della guerra… Come si può pensare alla tregua e poi tollerarlo?
«Non abbiamo mandato noi il camion sul ponte, quindi non direi che siamo noi che stiamo facendo la guerra».
Però li stiamo armando.
«Sì, li stiamo armando per difendersi, mandando ogni sorta di armamento, ma il ponte non rappresenta un fatto nuovo o un aumento del nostro impegno militare nel conflitto. Si potrebbe discutere se chi arma una parte del conflitto è esso stesso belligerante. Ma secondo me non lo è, è alleato e sostiene, ma non belligerante. Lo diventa nel momento in cui manda proprie unità combattenti al fronte».
Torniamo alla pace, allora. Cosa si può, cosa si deve fare adesso?
«Vorremmo sempre si possa dire “con un po’ di buona volontà dal conflitto si deve potere uscire”. Non è sempre vero. In una situazione come quella attuale la Russia non intende assolutamente negoziare sui lembi di territorio che ha annesso illegalmente».
Il fatto è che non si comprende l’obiettivo finale di questa guerra per l’Occidente.
«Non credo che abbia molto senso usare la retorica del “difendiamo la democrazia ucraina” e, quindi, del “vogliamo essere sicuri che sia una democrazia che merita di essere difesa”. Ci si può domandare se sia giusto sacrificare gli interessi della propria popolazione per solidarietà verso un Paese aggredito, indipendentemente dal suo regime. Io faccio parte della porzione più pacifista del popolo italiano. Sono stato contrario alla guerra in Iraq – oggi siamo tutti contrari alla guerra in Iraq -, quando non tutti lo erano, soprattutto nell’establishment. Sono stato contrarissimo alla guerra contro la Serbia del 1999 perché ritenevo che quella guerra, chiamata “umanitaria”, in realtà era una guerra illegale. In questo momento credo che sia giusto mostrare solidarietà verso il Paese aggredito in Europa da una potenza che è in mano a una dirigenza che ha superato tutti quei limiti che fino a poco tempo fa ritenevamo insuperabili, e nessuno di noi immaginava che la Russia si spingesse tanto oltre».
Anche se l’Ucraina ha tutte le ragioni, cosa che personalmente ritengo, non sarebbe giusto che il governo renda conto agli italiani di questa guerra, dall’invio delle armi agli obiettivi strategici, eccetera?
«Immaginiamo che l’Italia e altri Paesi europei decidessero di tirarsi fuori, dichiarandosi neutrali, come la Cina e l’India, assistendo a questo conflitto come se non li riguardasse. Ma la guerra continuerà, perché l’Ucraina non ha intenzione di rinunciare ai territori che la Russia ha annesso. Anche ipotizzando che noi ci dissociassimo dagli aiuti all’Ucraina, gli Stati Uniti continueranno ad aiutare Kiev, e così gli inglesi, i polacchi, e altri. Quindi il conflitto andrà avanti. Gli effetti sull’economia mondiale, sui prezzi, sull’inflazione ci saranno lo stesso, quindi non è che cessando di inviare armi all’Ucraina noi saremmo esonerati dal danno economico del conflitto. Dobbiamo capire se noi siamo in grado – non è detto che lo siamo – di dare un contributo per disinnescare questa miscela esplosiva che può portare a dei danni ancora più grandi».
Torniamo al punto di partenza, dunque. Cosa si può fare per contribuire a metter fine a questa guerra?
«Bisogna scartare talune opzioni che non portano a nulla, come per esempio gli appelli alla pace. Sono una cosa molto bella, eticamente giusta, perché non farlo vuol dire sembrare indifferenti a quello che succede, ma un appello alla pace, che venga dal Papa o da un gruppo di intellettuali, non cambia le carte in tavola. L’unica cosa che io posso immaginare, che potrebbe servire nel momento in cui le due parti cominciassero ad accusare una certa stanchezza, un certo esaurirsi delle risorse a disposizione, sarebbe che un attore influente parlasse con la Russia. Nel momento in cui la Russia decidesse di ascoltare questo attore e dimostrasse di volere veramente arrivare a un compromesso, gli americani dovrebbero parlare con gli ucraini e convincerli a revocare quella loro decisione di non negoziare con la Russia fino a che Putin sarà al potere».
E chi è questo attore?
«È la Cina. Quindi, se i Paesi europei provassero a fare una mediazione sarebbe uno sforzo inutile, perché non sono equidistanti: sono un po’ parte del conflitto, non sono belligeranti, certo, ma non sono comunque considerati dalla Russia come potenziali mediatori. Solo la Cina, la quale neanche lei è equidistante, perché checché se ne dica è sostanzialmente un alleato della Russia e ha interesse a indebolire l’Occidente, ha delle complementarità economiche con la Russia. Ma non è convinta della bontà di questa guerra. Se Pechino avesse interesse a mantenere una certa stabilità nell’ordine internazionale potrebbe fare pressione sulla Russia, anzitutto per ottenere di limitare gli attacchi ai civili, e poi arrivare a proporre un negoziato».
Quindi la Cina potrebbe essere l’attore che si mobilita e fa desistere Putin?
«Per esclusione, sì. Però chi inizia un’attività di mediazione deve farlo in modo molto discreto e riservato. Magari anche parlando alla Cina attraverso un altro Paese, per esempio l’India. Ma sono tutti dei procedimenti abbastanza complessi, di cui soltanto a distanza di anni si potranno ricostruire le varie mosse. Potrebbe – dico ipoteticamente – essere questa la strada e con probabilità di successo non troppo alte, e in ogni caso si deve presupporre una certa stanchezza delle parti coinvolte nel conflitto. Perché è chiaro che se un belligerante in piena avanzata vede la possibilità di annettere sempre più territori, lo fa, anche al di là delle intenzioni iniziali. È importante che il Cremlino possa mostrare alla popolazione di aver raggiunto degli obiettivi e che però, allo stesso tempo, sia consapevole dei rischi di una continuazione del conflitto».
Senta ma questa oggi è una guerra Russia-Ucraina o Russia-Nato?
«Chi ha cominciato questa guerra, c’è poco da fare, è la Russia. La Russia l’ha cominciata, in effetti, come una duplice guerra: contro l’Ucraina, per perseguire un suo progetto revisionista che era nell’aria, che era stato rimandato aspettando l’occasione giusta, in anni in cui la Russia era molto più cauta. Al tempo stesso da parte di Mosca c’era questo bisogno di rivalsa nei confronti degli Stati Uniti, che si presentavano agli occhi della Russia come una potenza arrogante che pretendeva di aver vinto la Guerra Fredda e, quindi, di poter assumere la guida del mondo. Dal punto di vista della Russia è una duplice guerra. Quanto agli Stati Uniti, sono intervenuti per difendere l’Ucraina ma al tempo stesso per difendere l’ordine mondiale e il diritto internazionale. Non si tratta solo di interessi economici».
Addirittura? Be’ intanto però le importazioni di gas liquefatto dagli Usa verso l’Europa sono aumentate moltissimo. E le paghiamo 6/7 volte tanto.
«Il ministro della Difesa americano, in relazione all’invasione dell’Ucraina, ha detto che dobbiamo indebolire la Russia in modo che in futuro non possa venirle in mente di riprovarci contro altri Paesi. Questo è un ragionamento pericoloso. Non credo sia corretto affermare che questo è il pensiero che ha guidato le decisioni americane, e meno che mai la motivazione del conflitto è solamente economica. C’è chi sostiene che gli Stati Uniti abbiano voluto provocare una guerra con la Russia, e che Mosca sia caduta in una trappola americana, che Washington andrà avanti fino al punto in cui o Putin verrà disarcionato o la Russia sarà in rovina. Non credo che sia questa l’intenzione degli Stati Uniti, purtroppo adesso se la Russia chiude la strada a qualsiasi soluzione ragionevole si rischia di dover andare avanti non facendo la guerra ma alimentando la capacità di difesa e di controffensiva dell’Ucraina fino a quando la Russia si sarà logorata al punto da venire a più miti consigli».
Che idea si è fatto dello stato della democrazia e dello stato di diritto in Ucraina?
«L’Ucraina è certamente un Paese affetto da un alto grado di corruzione ma nell’insieme democratico. Tuttavia non credo che questa sia una guerra che noi sosteniamo per difendere la democrazia, ma per difendere il diritto degli Stati sovrani europei ad avere rispettata la propria integrità territoriale».
Secondo lei l’ordine mondiale è eccessivamente a trazione Usa?
«Quando Trump tornerà al potere, potrei rispondere: “Liberiamoci della leadership americana, ma forse a quel punto sarà Trump a scaricare l’Europa”. Gli americani si sono illusi di poter essere il Paese guida del mondo e adesso russi, cinesi, turchi e anche altri gli stanno dicendo che devono ridimensionare le loro ambizioni. Si sta formando un nuovo ordine mondiale. Questo vuol dire anche che, così come gli Stati Uniti non hanno avuto scrupolo a formarsi una propria sfera di influenza, così la Russia considera legittima la propria pretesa di averne una, cosa che gli americani le hanno sempre negato. Si va verso un mondo non necessariamente stabile, dove gli americani non potranno più pretendere di dettare legge né pretendere di avere diritti al di sopra di quelli degli altri. Tuttavia ciò non significa che il mondo occidentale possa fare a meno della potenza americana».