Il grande risiko dello zar nei Balcani: così Putin sfida la Nato al di là dell’Adriatico
Soffia sul fuoco delle tensioni etniche e manovra la politica a colpi di gas e investimenti, sfruttando le divisioni nell’Ue
A Vladimir Putin piacciono la storia e i proverbi. In particolare una frase latina, tanto da averla ricordata in uno dei suoi discorsi più famosi. Era il 24 ottobre del 2014, la Russia aveva annesso la Crimea da sette mesi e a Sochi si teneva la riunione annuale del Valdai Club. Allora, in inglese, il presidente russo volle denunciare così la doppia morale dell’Occidente: «Quod licet Iovi non licet bovi». Letteralmente: «Quello che è concesso a Giove, non è permesso al bove». Alla citazione colta aggiunse poi un pericoloso riferimento storico-geografico: «Non capisco perché chi vive in Crimea non abbia gli stessi diritti di chi, per esempio, abita in Kosovo», rimarcò il leader del Cremlino, equiparando il referendum nella penisola ucraina con la consultazione del 1991 nell’ex provincia serba, un paragone ribadito spesso negli anni.
Non ultimo durante l’incontro dell’aprile scorso a Mosca con il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, a poco più di due mesi dall’invasione dell’Ucraina. «Molti Paesi in Occidente hanno riconosciuto (il Kosovo) come Stato indipendente», sottolineò Putin. «Abbiamo fatto lo stesso con le repubbliche del Donbass». Persino nel discorso trasmesso il 21 febbraio scorso in cui annunciava il riconoscimento russo dei separatisti, ricordò i bombardamenti occidentali su Belgrado e il sostegno della Nato al Kosovo. Anche allora un intervento esterno era giustificato dalla necessità di proteggere la popolazione locale da un governo nazionalista fuori controllo, tutelare i diritti umani e prevenire atrocità degne del nazismo. Poco importa se gli indiscriminati e deprecabili attacchi dell’artiglieria ucraina contro il Donbass con tanto di vittime civili non siano paragonabili ai sistematici omicidi di massa approntati dai sodali di Milosevic. «Non sarà concesso al bue», disse il leader russo nel 2014. «Ma l’orso non chiederà mai il permesso». Eppure il parallelo tra Donetsk e Pristina non è solo un espediente per giustificare le azioni del Cremlino. Per Putin infatti, la guerra dell’Alleanza contro la Jugoslavia (formata allora da Serbia e Montenegro) fu la vera fine dell’ordine nato nel secondo dopoguerra, con gravi conseguenze che oggi è determinato a sfruttare appieno.
A partire dalla tutela dei «diritti dei serbi in Kosovo», messa a rischio – come ribadito il 31 luglio dalla portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova – da una nuova legge che obbliga tutte le auto in circolazione nel territorio kosovaro a usare targhe emesse da Pristina e non in Serbia, fenomeno ancora molto diffuso nel nord del Paese. La norma, che doveva entrare in vigore il 1 agosto, ha scatenato le ire dei serbo-kosovari (una minoranza di 100mila persone su 1,8 milioni di abitanti), tanto che la sua attuazione è stata rimandata al 1 settembre.
«È solo la punta dell’iceberg», spiega a TPI il professor Andrea Locatelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. «La questione non riguarda un bollino da tre euro ma è simbolica e politica: quale autorità ha il diritto di decidere quali veicoli possono circolare?». Il punto, chiosa la ricercatrice del CeSPI Sabina de Silva, è la storica politica di accentramento attuata da Pristina in conflitto con le istanze autonomiste dei comuni serbi. «Qualche mese fa ci fu un altro aspro confronto sulle bollette energetiche», ricorda de Silva a TPI. «Le zone settentrionali del Kosovo, dove vive la minoranza serba, si sono sempre rifornite da Belgrado a prezzi agevolati e allo stesso modo i serbo-kosovari usano targhe e documenti rilasciati dalle autorità serbe». Non si rischia certo una guerra per così poco, sottolinea Locatelli, ma questo ci dà l’idea della polarizzazione raggiunta nella regione. E il conflitto in Ucraina di certo non aiuta.
«Le tensioni precedono l’attuale guerra scatenata dalla Russia, che però ha estremizzato ulteriormente le posizioni sia dei singoli Stati che delle diverse etnie e questo è particolarmente vero per Serbia e Kosovo che hanno assunto un approccio diverso nei confronti del conflitto», rimarca de Silva. Se Belgrado non ha aderito alle sanzioni contro Mosca (pur condannando l’invasione) ma ha concluso un accordo con il Cremlino per la fornitura di gas, Pristina ha sposato le posizioni di Usa e Ue anche in veste protettiva, temendo uno sconfinamento del conflitto su territorio kosovaro con il pretesto della “protezione dei popoli serbi oppressi”. Tutto questo nonostante entrambi abbiano un rapporto difficile con l’Europa. Cinque Stati dell’Ue (Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia e Romania) non riconoscono l’indipendenza del Kosovo, che per ora ha chiesto di aderire solo al Consiglio d’Europa e alla Nato. Al contempo Belgrado ha ottenuto lo status di Paese candidato ma i negoziati sono bloccati dalla mancata risoluzione della controversia con Pristina. Tra queste divisioni Putin ha gioco facile, aiutato – soprattutto nel caso della Serbia – dalla sua potenza energetica.
«Tramite Gazprom, nel 2008 Mosca si è comprata la principale impresa energetica serba (la Nis, ndr) a una cifra giudicata da molti ben al di sotto del prezzo di mercato, lasciandola poi nelle mani di personaggi a dir poco imbarazzanti», spiega Locatelli. Secondo il docente dell’Università Cattolica, si tratta di uno schema ripetuto in diversi paesi balcanici: l’azienda russa o una sua controllata mette in piedi una joint venture con una società locale, che così riesce a competere con le principali imprese nazionali. Questo fornisce al Cremlino due potenti leve di controllo: una politica, grazie alla dipendenza energetica da Mosca, e l’altra clientelare, in virtù dei canali che le aziende russe riescono ad aprire una volta sbarcate su questi mercati.
Un’influenza rilevante che, secondo Locatelli, è più visibile in Serbia che altrove, soprattutto per la comunanza culturale e religiosa con la Russia. Ma vale anche per altri Stati della regione, come ci ricorda de Silva. Secondo uno studio redatto dalla ricercatrice del CeSPI per l’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento, il 10 per cento delle entrate del settore energetico serbo è controllato dalla Russia, così come circa 1.000 aziende operanti nel Paese sono di proprietà russa. Al contempo, gli investimenti diretti esteri russi costituiscono «rispettivamente l’8% e il 30% del Pil della Bosnia-Erzegovina e del Montenegro». Non solo: in Bosnia-Erzegovina, quasi il 39% del fatturato aziendale totale è nelle mani di società a capitale russo. Tutto questo si traduce in un’evidente leva politica nelle mani del Cremlino, che non si ferma qui.
Soprattutto in Serbia, rimarca Locatelli, la Russia ha aiutato alcuni movimenti nazionalisti e di estrema destra, anche se non ne ha ricavato molto visti i magri risultati elettorali raggiunti. «Nessuno dei partiti con legami con Mosca (il Partito democratico di Serbia, il Movimento Dveri e il Partito popolare serbo) è rilevante per l’attuale maggioranza di governo a Belgrado», ricorda il docente. «In questo caso, Putin sembra aver puntato sul cavallo sbagliato». Un errore che non ha commesso al di là del confine con la Bosnia.
Parliamo di Milorad Dodik, leader della Repubblica serba di Bosnia, che negli ultimi mesi ha più volte minacciato la secessione. In un’intervista dello scorso anno al Guardian, Dodik ha dichiarato che quando si reca a Mosca non ha bisogno di chiedere nulla, perché è Putin a chiedergli in cosa possa essere d’aiuto. «Pur non avendo prove dirette, ci sono diversi indizi che lasciano pensare che la longa manus del Cremlino arrivi a soffiare anche su questo conflitto», sostiene Locatelli. «Due indizi non fanno una prova però se consideriamo anche la questione del Montenegro (ormai il coinvolgimento di Mosca nel tentato colpo di Stato del 2016 è abbastanza evidente), emerge un quadro piuttosto chiaro: la Russia vuole limitare l’influenza di Usa, Ue e Nato nella regione, che per Putin è inaccettabile».
Non è cattiveria, assicura ironicamente il docente della Cattolica. «Quello che vuole è semplicemente destabilizzare». Soprattutto il confine tra Serbia e Kosovo, dove operano al contempo una missione Nato, una dell’Unione europea e un’altra delle Nazioni Unite. «È uno dei pochi casi in cui l’ordine liberale sembra funzionare», sottolinea Locatelli. «Ma se tutto fallisse drasticamente, con un’altra guerra con la Serbia, allora questo minerebbe ulteriormente le fondamenta di quest’ordine». «È un gioco delle parti», aggiunge de Silva. «Da un lato Mosca sfrutta le divisioni e soffia sui venti del malcontento popolare (in Serbia diverse manifestazioni popolari hanno chiesto al governo di non imporre sanzioni contro la Russia per evitare contraccolpi economici) e dall’altro l’Europa cerca una posizione unitaria». Tutto però dipenderà dalle azioni di Bruxelles: «Se la proposta di Macron di una nuova comunità politica europea sarà accettata dai Paesi della regione e le istituzioni comunitarie si mostreranno credibili allora l’Ue riuscirà a erodere l’influenza del Cremlino», conclude la ricercatrice del CeSPI.
Un treno su cui dovrà salire anche l’Italia. «Se vogliamo continuare a giocare un ruolo, l’unica cosa che possiamo fare è puntare sul cavallo vincente, cioè ancorarci a chi può unire le sue forze alle nostre per essere sempre più determinante. Ed è ovviamente un riferimento all’Ue e alla Nato. Fare da soli è impossibile», ricorda Locatelli.