“Putin? Chiamatelo il padrino”: intervista a Carolina de Stefano
“La vicenda Prigozhin cambia la natura del regime. Ormai al Cremlino vige un sistema pseudo-mafioso. In cui lo Zar agisce solo sulla base dei propri umori”, dice la professoressa di Storia e politica russa
Carolina de Stefano, docente di Storia e politica russa alla Luiss di Roma, nei giorni scorsi ha rivolto sui social un appello ai media italiani: «Basta, per favore, raccontare (leggi: inventarsi) cosa succede al Cremlino come fosse un romanzo di serie B». Secondo la professoressa, quando sui giornali del nostro Paese si parla di Russia spesso «si applicano presuntuosamente categorie e sentimenti nostri a una società e mentalità diverse».
De Stefano, a cosa si riferisce?
«Sui media italiani noto un continuo riferimento allo stato emotivo di Putin che francamente non capisco su cosa si basi. Dopo il tentato ammutinamento di Prigozhin, ho letto titoli come “Putin adesso trema” o “Il Cremlino ha paura”, Ecco, credo che attribuire al presidente russo sentimenti come la paura non ci aiuti dal punto di vista analitico».
Sta dicendo che da noi c’è un’eccessiva tendenza a romanzare quel che accade a Mosca?
«Non è certo la paura a determinare le decisioni e le azioni di Putin: semmai, come tutti i dittatori, il leader del Cremlino è mosso dalla volontà di mantenere il potere a ogni costo. Ma il discorso non riguarda solo la dimensione emotiva di Putin: ho letto anche molte semplificazioni sul sentimento della popolazione russa rispetto a ciò che sta avvenendo. Analisi superficiali che troppo spesso non si basano su dati reali».
E da un’analisi non superficiale, invece, cosa emerge?
«Il fatto è che sulla Russia abbiamo sempre meno informazioni: da un lato perché ormai non c’è più quasi nessun corrispondente occidentale sul posto, dall’altro perché è diventato più difficile accedere alle élites russe e capire cosa realmente accade al Cremlino. Serve parlare con le persone, provare a trovare e raccontare storie significative e individuali su come le persone vivono questo conflitto, e perché. Ad esempio, dire che molti russi non vogliono vedere il loro Paese perdere in Ucraina non è lo stesso che dire che sono tutti a favore dalla guerra o che lo sono stati dall’inizio».
Secondo lei quante probabilità ci sono che a far uccidere Prigozhin non sia stato Putin?
«Pochissime. Mentre in altre occasioni sono stata molto aperta ad analizzare tutte le opzioni, in questo caso mi sembra che neanche il Cremlino abbia fatto qualcosa per negare la propria responsabilità, magari tirando in ballo l’Occidente come ha fatto altre volte».
Prigozhin, però, pensava di averla scampata. O no?
«No, non ha mai pensato che Putin lo avesse perdonato: sapeva bene che il suo ammutinamento non sarebbe stato accettabile nemmeno in un sistema democratico, figuriamoci in un regime ormai pseudo-mafioso come quello russo…».
Perché lo definisce pseudo-mafioso?
«Prima il fallito ammutinamento e poi questa esecuzione pubblica sono eventi che cambiano la natura del regime e il modo in cui Putin è percepito all’interno e all’esterno. Il leader del Cremlino ormai agisce come una sorta di “padrino”».
Da cosa lo desume?
«Se prima Putin era il capo di un sistema dipendente da lui ma dal quale anche lui stesso dipendeva, adesso questa interdipendenza non c’è più. Oggi Putin detta legge secondo la sua volontà e i suoi umori. E lo fa con estrema freddezza. Anche la maniera in cui è stato gestito il caso Prigozhin colpisce: prendersi quel tempo, fare quelle dichiarazioni, evocare l’idea del tradimento, sembra davvero il copione di un film mafioso».
Putin governa la Russia dal 1999: quattro mandati da presidente e uno da primo ministro. Come è cambiato in questi ventiquattro anni il suo modo di gestire il potere?
«Quando salì al potere, tra il 1999 e il 2000, si presentò come colui che avrebbe riportato l’ordine nel Paese dopo il caos dell’era Eltsin. Nei primi anni si è concentrato sulla ricostruzione della grandezza della Russia attraverso l’approvazione di nuove leggi che restituivano allo Stato il controllo su certe attività economiche e sulle autorità regionali. Il personaggio è sempre stato quello: l’ex capo dei servizi segreti che fa leva sul proprio potere personale. Ma in quella prima fase, se non altro, agiva in parte in una dimensione istituzionale e cercava di accrescere la sua legittimità anche attraverso iniziative popolari. Poi è iniziata una fase discendente».
Quando?
«Uno degli snodi chiave è nel 2011-2012, quando Putin, dopo due mandati da presidente e uno da primo ministro, torna a candidarsi alla presidenza forzando la Costituzione. In quel momento rompe un patto con il popolo. E in più, limita e reprime con forza le proteste di piazza. Inizia, cioè, a gestire il potere in modo sempre meno istituzionale e sempre più personale. Non a caso è sempre in quella fase che inizia ad appellarsi maggiormente ai valori tradizionali e all’ortodossia religiosa. Così nel regime è rimasto solo il controllo poliziesco. È il fallimento del progetto originario di Putin di costruzione e garanzia dell’ordine russo».
La vicenda Prigozhin è il sintomo di una crepa nel regime?
«Non so se nel breve e medio termine ciò che è accaduto possa provocare una crisi del sistema. Quel che vedo è che oggi, di fatto, in Russia il Parlamento e il Governo non contano più nulla: c’è solo Putin che detta legge. In prospettiva, ciò può potenzialmente portare a una deriva “anarchica” nel Paese. E la situazione può solo peggiorare: più va avanti il conflitto in Ucraina e più le regole del gioco saranno queste. Con la guerra, la Russia sta cambiando anche sul piano economico».
Per effetto delle sanzioni occidentali?
«L’impatto c’è: la bilancia commerciale non pende più a favore dell’export e aumentano le importazioni dalla Cina. Ma al di là di questo sta cambiando la struttura stessa dell’economia: è in atto una riconversione di molte aziende verso la produzione militare e ci sono scompensi a livello di occupazione, perché c’è carenza di manodopera. È un’economia che si sta riadattando».
Putin accetta la subalternità della Russia alla Cina?
«Sul piano economico non può fare altrimenti. Ma in un suo intervento sul Quotidiano del Popolo cinese, pubblicato lo scorso marzo, emerge un senso di superiorità culturale che ritiene la Russia abbia rispetto alla Cina. Putin accetta la dipendenza economica da Pechino ma conserva l’idea che sia Mosca la guida culturale di questo ordine alternativo all’Occidente».
Nei suoi ventiquattro anni al potere, com’è cambiato il modo di Putin di gestire le relazioni con l’Occidente?
«Ci sono due tesi: per la prima Putin è sempre stato lo stesso, per la seconda è cambiato nel tempo. Io direi che c’è un fondo di verità in entrambe le tesi. Dalla sua prospettiva, Putin ritiene di essere stato aperto verso l’Occidente e di essere stato fin troppo paziente sulla questione ucraina. Dopo gli attentati delle Torri gemelle, nel 2001, la Russia collaborò con gli americani, mentre al contrario il Cremlino lamenta di non aver ricevuto lo stesso supporto dagli Usa dopo l’attentato terroristico alla scuola di Beslan nel 2004. D’altra parte, ed è qui che le due visioni confliggono, va anche detto che Putin aveva aperto al dialogo con l’Occidente ma volendo imporre la propria visione, ossia volendo riaffermare la grandezza della Russia. Non è mai stato aperto al compromesso».
Nel 2024 in Russia si vota per le presidenziali. Alla precedente tornata elettorale, nel 2018, Putin fu eletto con quasi il 77% dei voti. Al netto dei soliti prevedibili brogli, pensa che l’anno prossimo prenderà di più o di meno?
«Difficile dirlo. Bisogna vedere i dati economici nei prossimi mesi. Nel 2018 ebbe uno dei suoi minimi storici in seguito alla riforma delle pensioni, mentre oggi non sono previste misure economiche impopolari. Direi però che si può prevedere un alto tasso di non partecipazione al voto: il malcontento si tradurrà soprattutto nell’astensione».
Chiudiamo con il Papa. È stato molto criticato il recente messaggio ai cattolici russi in cui Bergoglio esalta la Russia imperialista di Pietro I e Caterina II. Lei che idea si è fatta?
«Ho trovato le polemiche eccessive. Di certo in questo momento il riferimento alla Russia imperiale stona, ma credo che il Papa volesse semmai porre l’accento su governanti che mostrarono apertura verso l’Occidente, al punto da prenderlo a modello, sebbene adattato al sistema russo».