Pulizia etnica e giornalisti arrestati: in Etiopia non basta un premio Nobel per la pace
La guerra nel Tigray ha portato al ritorno della carcerazione e dell’intimidazione di giornalisti in Etiopia
Pulizia etnica e giornalisti arrestati: in Etiopia non basta un premio Nobel per la pace
Quando il primo ministro etiope Abiy Ahmed aveva vinto il premio Nobel per la pace a ottobre 2019, il comitato per il prestigioso riconoscimento aveva ammesso che la decisione poteva essere stata prematura. “Non c’è dubbio che alcune persone penseranno che il premio di quest’anno sia stato assegnato troppo presto”, aveva detto il Comitato norvegese per il Nobel nello spiegare la sua decisione, citando una lunga lista di riforme promosse nei primi mesi dall’arrivo al governo di Abiy. Tra lo storico accordo di pace con l’Eritrea, motivazione principale del premio, e la liberazione di migliaia di prigionieri politici, veniva fatto riferimento anche la fine della censura. Un’attestazione che era suonata come una beffa già dopo poche settimane, quando Abiy aveva preso l’insolita decisione di rifiutarsi di rispondere alle domande della stampa dopo la premiazione.
Lo è ancora di più oggi, con il ritorno ormai consolidato alla carcerazione e l’intimidazione di giornalisti a seguito dell’offensiva lanciata lo scorso novembre nella regione settentrionale del Tigray. Una guerra che ha causato milioni di sfollati e ha portato attivisti e osservatori internazionali ad accusare le autorità etiopi di condurre una campagna di pulizia etnica.
Alla fine del 2018 nessun giornalista risultava detenuto nelle carceri etiopi per la prima volta in 14 anni. Il nuovo esecutivo ne aveva infatti ordinato la scarcerazione come parte delle riforme promosse nei primi 100 giorni dall’arrivo di Abiy al governo ad aprile 2018, che sembravano segnare una rottura con il recente passato dell’Etiopia.
Da quando è iniziato il conflitto invece, almeno 10 tra giornalisti e addetti ai lavori sono stati arrestati dalle autorità etiopi per il loro lavoro nel Tigray, per periodi di detenzione che, secondo l’ong Committee to Protect Journalists, sono arrivati anche a due mesi.
Con l’inizio conflitto, le autorità hanno chiuso l’accesso a internet e impedito ai giornalisti di accedere alla regione, arrestando dopo pochi giorni sei giornalisti etiopi che lavoravano per testate locali. Successivamente sono stati arrestati cittadini etiopi che lavoravano anche per agenzie e testate internazionali come Bbc, Financlal Times, Reuters, Afp New York Times.
Secondo diverse ong, gli arresti si sono accompagnati a una campagna generalizzata di intimidazione e censura per manipolare la copertura mediatico del conflitto.
A gennaio, il giornalista Dawit Kebede dell’emittente Tigray TV è stato ucciso insieme a un amico da colpi d’arma da fuoco a Mekelle, capoluogo del Tigray. Secondo l’organizzazione indipendente Ethiopian Human Rights Council e fonti citate da Addis Standard e Afp, i due sono stati uccisi dalle forze di sicurezza etiopi, forse per aver violato il coprifuoco imposto nella città.
Il mese successivo Lucy Kassa, freelance che ha collaborato per testate internazionali, è stata visitata nella sua casa di Addis Abeba da uomini armati che le hanno sequestrato un portatile e una pennetta, dopo aver pubblicato un articolo per il Los Angeles Times sugli stupri commessi da soldati eritrei, la cui presenza nel Tigray era stata smentita ripetutamente dal governo etiope. “La prossima volta ti colpiremo più forte”, gli hanno detto i tre uomini dopo averla spinta a terra per introdursi nella sua abitazione, minacciandola e accusandola di sostenere la “giunta del Tigray”.
Anche un giornalista del New York Times, Simon Marks, ha subito ritorsioni dopo aver condotto interviste nel Tigray a testimoni che avevano raccontato le atrocità commesse da soldati etiopi ed eritrei e a donne che sostenevano di aver subito violenze sessuali particolarmente efferate. Il giorno successivo al suo rientro dal Tigray ad Addis Abeba, l’Autorità radiotelevisiva etiope gli ha comunicato la revoca delle credenziali giornalistiche, accusandolo di non essere stato equilibrato e di aver riportato “fake news”. Secondo il quotidiano statunitense, le autorità etiopi hanno dichiarato che la revoca sarà valida almeno fino a ottobre.
La guerra nel Tigray
Il conflitto è iniziato ufficialmente il 4 novembre scorso, con l’offensiva lanciata dalle forze federali contro il Fronte popolare per la liberazione del Tigray (Tplf) che governava la regione. Prima dell’ascesa di Abiy il Tplf, partito della minoranza tigrina, aveva governato il paese per tre decenni, esercitando dominando il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), la coalizione che ha governato il paese dalla fine del regime di Menghistu nel 1991.
Dopo anni di violenze etniche che avevano provocato milioni di sfollati, ad aprile 2018 è salito al governo Abiy Ahmed, primo capo di governo di etnia oromo, che costituisce più di un terzo della popolazione del paese, che in pochi mesi ha promosso riforme ambiziose in ambito politico ed economico, liberando decine di migliaia di prigionieri politici e stringendo uno storico accordo di pace con l’Eritrea. Riforme che sarebbero dovute culminare nelle elezioni previste per il prossimo 5 giugno, in cui al posto dell’Eprdf si presenterà il nuovo partito della Prosperità voluto da Abiy.
Il tentativo di aprire l’economia e la società etiope non ha impedito che molte delle divisioni tra i numerosi gruppi etnici che compongono il paese e all’interno dell’Eprdf diventassero irreversibili, portando il governo a uno scontro frontale con il Tplf.
La dura risposta del governo etiope ha coinvolto, oltre alle forze del governo federale, anche miliziani dalla regione di Amhara e soldati dalla vicina Eritrea, accusati da rifugiati e residenti di aver compiuto massacri e violenze indiscriminate sui civili. La presenza di soldati eritrei è stata smentita per mesi dal governo etiope, fino all’ammissione di Abiy lo scorso 23 marzo.
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