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Home » Esteri

Iraq, la polizia spara contro i manifestanti che protestano per la disoccupazione

Immagine di copertina

Proteste in Iraq, cosa sta succedendo e perché i manifestanti sono scesi in piazza

In Iraq martedì primo ottobre una folla di manifestanti ha invaso le piazze delle principali città del paese: Baghdad, Hillah, Najaf e Nassiriyah sono in protesta da giorni per chiedere lavoro, servizi, elettricità. I dimostranti vogliono che si trovi una soluzione alla forte corruzione della classe dirigente politica irachena e pretendono un cambio di rotta dal governo. Stando ai dati della Banca Mondiale, il tasso di disoccupazione tra i giovani in Iraq arriva al 25%, mentre è intorno al 20% della forza lavoro totale, situazione che nel Paese sta generando un forte malcontento.

Il bilancio dei morti durante gli scontri, ad oggi, è di 41 persone, mentre i feriti secondo la commissione irachena per i diritti umani sono oltre 1100. Il numero delle vittime continua però a salire con il passare delle ore.

Il governo ha imposto il coprifuoco nella capitale Baghdad, ad Hillah, a Najaf e a Nassiriyah e ha bloccato l’accesso a internet su tre quarti di tutto il paese, impedendo anche la diffusione delle immagini degli scontri.

Attraverso i social infatti sono state organizzate molte delle manifestazioni di questi giorni e in questo modo le autorità sperano di ostacolare altre proteste.

Il primo ministro Adel Abdul Mahdi è in carica da un anno ma la piazza non sembra aver apprezzato la sua condotta politica, tanto che molti dei manifestanti auspicano espressamente una caduta del governo.

Le prime proteste sono iniziate martedì a Baghdad e nella città di Nassiriya per poi estendersi anche al Sud del Paese. La polizia ha reagito inizialmente con proiettili di gomma e gas lacrimogeni sparando anche sui manifestanti. Nella giornata successiva gli scontri si sono fatti più intensi, ci sono stati altri morti sia tra le forze della polizia che tra i civili ed è a quel punto che il primo ministro ha deciso di imporre il coprifuoco sulla capitale e le altre città in protesta.

A Kut i manifestanti hanno tentato di fare irruzione nel municipio mentre a Nassiriya, Amara e a Najaf alcune persone avrebbero dato fuoco a dei palazzi governativi. Secondo la Bbc, il 3 ottobre le forze irachene hanno sparato direttamente sui dimostranti e il bilancio dei morti secondo alcune emittenti televisive come al-Arabiya sarebbe salito a 44. Oggi 4 ottobre è il venerdì della preghiera collettiva islamica e si temono nuovi scontri.

Le reazioni politiche

Il primo ministro Abdul Mahdi con un comunicato ufficiale ha sottolineato il diritto dei cittadini a manifestare in modo pacifico e ha aperto un’inchiesta sui casi delle vittime colpite.

Il presidente del Parlamento iracheno, Mohammed al-Halbusi, ha inoltre chiesto ai rappresentanti dei manifestanti di avviare un colloquio con lui in Parlamento e anche il presidente iracheno Barham Salih ha scritto su twitter che si tratta di “una manifestazione pacifica è un diritto costituzionale, garantito per i civili”.

La più importante autorità sciita irachena, il Grand Ayatollah Ali Sistani, si è espresso a favore delle proteste popolari contro il carovita e la corruzione e ha fortemente criticato le autorità politiche e di polizia per la gestione repressiva delle manifestazioni. “Agite con la politica prima che sia troppo tardi”, ha detto oggi Sistani, durante il sermone della preghiera collettiva del venerdì nella città santa sciita di Karbala.

Dopo 16 anni dalla caduta di Saddam Hussein, il paese non è stato ancora pacificato. Nel luglio 2018 in migliaia erano scesi in piazza a Bassora contro il governo “corrotto” ma a un anno di distanza le tensioni non sembrano essere finite.

Il problema dell’energia

L’Iraq nonostante sia ricchissimo di petrolio è ancora energeticamente dipendente: importa infatti circa il 40% delle risorse energetiche (soprattutto dall’Iran). Non ha le infrastrutture sufficienti ad estrarre tutte le risorse di cui è dotato e ogni giorno circa 16 miliardi di metri cubi di gas vengono bruciati insieme al petrolio attraverso un’operazione chiamata “gas flaring”.

Il gas flaring consiste nel far bruciare il gas naturale in eccesso che sarebbe troppo costoso utilizzare per mancanza di infrastrutture e di reti di connessione con le zone di consumo.

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