I profughi siriani che lavorano nei campi in Libano per pochi euro al giorno
Luigi Avantaggiato è stato per TPI nella Valle della Bekaa e ha documentato le condizioni di vita di migliaia di profughi fuggiti dalla violenza della guerra in Siria
Il 30 giugno 2016 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) interrompeva, su mandato del governo di Beirut, il censimento dei profughi in arrivo in Libano dalla Siria.
Attualmente, sono circa un milione e trentamila i siriani scappati dalla guerra registrati dall’Unhcr sul suolo libanese.
Il paese dei cedri deve sostenere uno sforzo ingente, costretto a fronteggiare un’emergenza che, nel giro di due anni, ha aumentato del 15 per cento circa il numero dei suoi abitanti (la popolazione libanese è stimata intorno ai 6,2 milioni).
Disseminati in tutto il territorio, i profughi – in gran parte famiglie di classe sociale media – vivono sparpagliati tra gli agglomerati urbani di Beirut, al di fuori dei confini amministrativi della città, nel Governatorato del Libano del Sud, lungo la costa del Libano del Nord e nei dintorni di Tripoli.
Anche se insediati in campi non formali, la vicinanza dei centri urbani migliora la qualità della vita dei siriani, che possono accedere alla macchina degli aiuti umanitari e usufruire dei servizi di base: acqua corrente, cibo e sanità non specialistica.
Lo scenario muta radicalmente nella Valle della Bekaa, il fertile territorio che si estende tra il Libano e la Siria, delimitato dai massicci del monte Libano a ovest e dell’Anti-Libano a est.
Campo profughi nella Valle della Bekaa. Credit: Luigi Avantaggiato
Qui, in una vallata verde abbracciata da rosse montagne, cercano di sopravvivere oltre 360mila profughi, che abitano in baraccopoli, container e alloggi di fortuna.
A pochi chilometri da Zahle, capoluogo del Governatorato della Bekaa, i profughi non hanno molte possibilità tra cui scegliere: donne e uomini lavorano come braccianti agricoli nei campi, faticando dall’alba al tramonto per raccogliere spinaci, zucchine, cetrioli e cocomeri.
Una cassetta di ortaggi. Credit: Luigi Avantaggiato
“La mia giornata inizia molto presto, intorno alle 5. Andiamo nel campo di fronte a raccogliere spinaci. Ci rimaniamo fino a sera, quando ritirano le nostre cassette piene di verdura”.
È la voce di Saleema, ragazza di 21 anni fuggita dalla provincia di Homs, in Siria. Lei e la sua famiglia vivono in una casa abbandonata senza acqua corrente.
Mentre mi mostra il suo rifugio di pareti disadorne e senza intonaco, pieno di oggetti rinvenuti tra i rifiuti, racconta che “vivere in Siria era diventato pericoloso”. Avevano perso la casa a causa dei bombardamenti, e “per disperazione siamo venuti in Libano, come tutti gli altri”.
Una donna siriana mentre lavora in un campo di spinaci. Credit: Luigi Avantaggiato
Le giornate per Saleema e i suoi due fratelli più piccoli sono tutte uguali: c’è chi trasporta avanti e indietro cassette di plastica colme di ortaggi e chi si spezza la schiena per raccoglierli.
Un lavoro di fatica non adatto a tutti: molte donne, troppo anziane per lavorare, accudiscono i bambini delle altre famiglie fino al ritorno dei genitori.
Saleema, 21 anni, originaria di Homs. Credit: Luigi Avantaggiato
Non ci sono solo piantagioni all’aperto ma anche coltivazioni in serra, dove altri profughi sono impegnati nella raccolta di cetrioli, zucchine e cocomeri.
Nei vivai il silenzio regna sovrano, interrotto solo dal fruscìo del passaggio delle contadine che raccolgono frutta e verdura o potano le foglie morenti delle piante.
Hasna, originaria di Raqqa, lavora come bracciante agricola nelle serre di zucchine. Credit: Luigi Avantaggiato
Dentro una serra nella Valle della Bekaa. Credit: Luigi Avantaggiato
I colori vividi dei vestiti delle donne siriane squarciano il verde monolitico e ingombrante delle piante rampicanti. Il rumore delle cesoie scandisce la giornata di lavoro, che progredisce attraverso azioni lente, monotone e ripetitive.
Donne siriane lavorano piante da spezie in una baraccopoli lungo il confine con la Siria. Credit: Luigi Avantaggiato
“Non riesco a vivere con cento dollari al mese. È l’unico lavoro che sono riuscita a trovare. Siamo ospiti qui, non possiamo fare altrimenti”.
Hasna è arrivata in Libano nel marzo del 2014, fuggita, vedova e con un figlio in grembo, dalla furia del sedicente Stato islamico.
Tre dollari al giorno, questo il contributo economico stanziato per i profughi da Unhcr, Wfp (World Food Program) e Unicef, sono insufficienti, anche all’interno della microeconomia di un campo.
“La sera i proprietari ritirano le cassette piene. Le dobbiamo caricare sui camion assieme al resto del raccolto. A fine giornata riceviamo 6mila lire libanesi, a volte anche meno”, continua a raccontarmi Hasna. “Non mi lamento, riesco a far stare meglio mio figlio così”.
Una giovane donna siriana fascia il proprio bambino prima di recarsi a lavoro. Credit: Luigi Avantaggiato
Cassette piene di ortaggi. Credit: Luigi Avantaggiato
Poco più di 3 euro e 50. Questa la paga per 14 ore di lavoro sotto il sole cocente della Valle della Bekaa. Pochi soldi che possono fare la differenza, garantendo una coperta in più, dei biscotti o del latte a lunga conservazione.
Molti profughi sognano di riconquistare la terra che hanno dovuto abbandonare, di ritornare alle loro case, di ricominciare; lasciandosi alle spalle un paese che, purtroppo, non è stato in grado di accoglierli e aiutarli, e i cui servizi sono ormai a un passo dal crollo.
Un giovane siriano sposta cassette vuote per consentire la raccolta degli ortaggi. Credit: Luigi Avantaggiato