Carolina De Stefano a TPI: “Ora Putin è più debole, tutta la Russia ha visto quello che è successo”
“Da quando c’è Putin al potere questo è forse il momento di massima instabilità. Tutto il Paese ha visto cosa è accaduto in barba a ogni regola. Il Cremlino ha evitato il pugno duro per evitare la guerra civile. Ma è stato un ammutinamento, non un tentato golpe”. Intervista a Carolina de Stefano, docente di Storia e politica russa alla Luiss di Roma
Carolina de Stefano, docente di Storia e politica russa alla Luiss di Roma, cosa è accaduto sabato 24 giugno in Russia?
«Non è stato un golpe, questo è chiaro. È stato un ammutinamento, una faccenda interna alle forze militari impiegate in Ucraina dopo mesi di tensioni crescenti tra quelle forze. Ma non dobbiamo sottovalutare anche un altro aspetto».
Quale?
«Il fattore personale: Prigozhin temeva per il suo destino e per quello della sua compagnia, la Wagner. Negli ultimi mesi, in Ucraina, ha visto molti dei suoi soldati morire, in particolare a Bakhmut, e ha più volte provato ad attirare l’attenzione di Putin con una serie di video, sebbene senza mai scagliarsi direttamente contro di lui ma rivolgendosi alla leadership della Difesa (il ministro Shoigu e il Capo di Stato maggiore Gerasimov, ndr). Di fronte alla prospettiva di vedere il Gruppo Wagner sottomesso formalmente al ministero della Difesa, come era previsto avvenisse il primo luglio, si è lanciato in questa operazione per negoziare, contando sul fatto che il Cremlino non potesse fare a meno di Wagner nel conflitto ucraino o comunque che non potesse permettersi una crisi interna».
E gli è andata bene?
«Non lo definirei un successo, per Prigozhin. Al momento si è salvato, ma solo nelle prossime settimane scopriremo come cambierà la sua posizione, come il Cremlino gestirà “il dossier Prigozhin”».
Che cosa potrebbe nascondersi dietro l’accordo, negoziato da Lukashenko, tra Prigozhin e il Cremlino?
«Probabilmente si è trattato di un accordo in cui sono state date anche garanzie economiche a Prigozhin. Ma molte cose non le sapremo probabilmente mai».
Nel covo di Prigozhin sono stati trovati 43 milioni di euro…
«Lui è un milionario, un criminale milionario: è possibilissimo siano soldi suoi, ma potrebbero essere anche fondi del Gruppo Wagner, che – non dimentichiamolo – è una banda di mercenari che in Africa ha il controllo di miniere di oro e diamanti. Non è un caso che quei 43 milioni siano stati immediatamente trovati e sbandierati al mondo: fa tutto parte di una campagna di delegittimazione tipica del metodo russo».
Potrebbe esserci qualche Stato occidentale dietro la rivolta del Wagner, come qualcuno ha ipotizzato?
«Prigozhin è un mercenario, è pronto a prendere soldi da chiunque gliene offra, di certo non si opporrebbe per motivi morali. Non si può escludere nulla da questo punto di vista. Ma ciò che è accaduto resta un problema interno, che ha al centro i rapporti fra Prigozhin e l’esercito».
Nel suo blitz del 24 giugno, il Gruppo Wagner ha ucciso tra i 13 e i 20 soldati russi e ha abbattuto un aereo e un elicottero della Difesa, eppure non ha incontrato praticamente alcuna resistenza nella sua marcia verso Mosca. Non solo: Prizoghin ne è uscito illeso, forse addirittura impunito dal punto di vista penale, e per i mercenari che hanno condotto il blitz ci sarà l’amnistia. Perché questa volta l’autocrate Putin non ha usato il pugno duro?
«Perché ha voluto evitare una guerra civile. Se gli uomini della Wagner fossero arrivati a Mosca, l’operazione – partita con intenzioni diverse – avrebbe effettivamente potuto trasformarsi in un tentato golpe. Ma dietro questa linea “morbida” c’è anche l’approccio “gangsteristico” con cui Putin gestisce le relazioni di potere: ha risolto il caso sulla base solo di sue valutazioni personali, senza minimamente tenere in considerazione le istituzioni del Paese».
I giornali russi, in modo abbastanza inusuale, hanno sottolineato come in quest’occasione lo Stato abbia palesato la sua «vulnerabilità».
«C’è una frangia nazionalista – legittimata fra l’altro in questi anni proprio dal Cremlino – che non può accettare quel che è accaduto: Putin il 24 mattina ha assicurato che il blitz non sarebbe rimasto impunito, ma dopo appena poche ore si è di fatto auto-smentito, consentendo a Prigozhin di espatriare e concedendo l’amnistia ai suoi soldati. Tutta la Russia ha visto quel che è accaduto: non c’è alcuna regola, se persino degli ex galeotti rimessi in libertà per andare a combattere possono permettersi di minacciare il Sistema».
Putin adesso è più debole?
«Sì, indubbiamente. Tendo sempre a rifiutare certe letture che diamo talvolta in Occidente rispetto a imminenti punti di rottura per il regime di Putin, ma quello che è accaduto il 24 è talmente farsesco e allo stesso tempo percepito come un’offesa dalla popolazione che avrà per forza delle conseguenze. Questa volta al Cremlino non basterà intensificare la repressione, come avvenne dopo le proteste del 2012. Ci sono cose che per la popolazione russa non possono passare».
È il momento più difficile per il presidente da quando è al potere?
«Più che per Putin, diciamo che è il momento forse di maggiore instabilità e tensione per la Russia da quando c’è al potere Putin».
Che impatto avrà quel che è accaduto il 24 giugno sulla guerra in Ucraina?
«Questa è la grande domanda, ma la risposta non è chiara oggi nemmeno a Mosca. Bisognerà vedere cosa succederà nelle prossime settimane: cosa accadrà al Cremlino e al ministero della Difesa, come verranno integrati i militari del Gruppo Wagner nell’esercito russo… Sul fronte meridionale la dipendenza dal Wagner fin qui non è stata così impattante come lo è stata, almeno nella prima fase, a Bakhmut».
Da dove nasce il malessere di Prigozhin verso Shoigu e Gerasimov?
«Il Gruppo Wagner si è sentito mandato al massacro in Ucraina. La guerra non sta andando secondo i piani e questo crea tensioni. È chiaro, però, che i messaggi di Prigozhin sono indirettamente rivolti al Cremlino. Detto questo, farei attenzione a non prendere per oro colato tutte le sue affermazioni, una tendenza che invece ho notato in questi giorni».
Sui social sono circolati video in cui si vedono i soldati del Wagner e lo stesso Prigozhin accolti dalla popolazione con applausi e cori di sostegno. Al netto del fatto che possa trattarsi di clip propagandistiche, come sono visti questi mercenari dalla popolazione russa?
«Questo è un punto molto interessante. Quei video sono stati girati a Rostov e la reazione della gente sembra genuina. Nel contesto quasi medievale in cui si trova la Russia oggi, personaggi come Prigozhin acquistano una propria legittimità, anche grazie ai social e allo spazio che gli è stato concesso dal Cremlino. L’attrazione di una parte della popolazione nei suoi confronti deriva anche dal fatto che lui è uno dei pochi nel Paese a essere percepito come una persona che può permettersi di dire le cose come stanno, al punto che arriva addirittura a sfidare il potere. Detto questo, però, Rostov non è tutta la Russia: bisogna capire qual è il sentimento nel resto del Paese».
Perché l’accordo col Cremlino è stato negoziato proprio da Lukashenko?
«La priorità era far uscire Prigozhin dal Paese, quindi serviva un Paese in cui spedirlo. Chi meglio della Bielorussia, praticamente il solo alleato rimasto?».
La marcia del Gruppo Wagner verso Mosca si è bruscamente interrotta a 200 chilometri dalla capitale. Perché Prigozhin si è fermato? Ha capito che non aveva chance di uscire vivo dal blitz oppure gli è stato promesso qualcosa in cambio? Il suo è stato un ragionamento di realismo o di opportunismo?
«Forse è stato sia realista che opportunista. Realista perché si è spaventato egli stesso di quel che sarebbe potuto succedere, anche perché probabilmente non lo aveva previsto del tutto. Ma anche opportunista, perché evidentemente in poco tempo le cose che lui ha chiesto gli sono state concesse, pur con tutti i punti interrogativi che restano».
In Occidente fatichiamo a capire se le sanzioni contro la Russia stanno funzionando. Come stanno davvero le cose?
«L’impatto c’è, soprattutto sull’élite russa, che vede le proprie risorse ridotte, mentre per il resto della popolazione già prima le condizioni economiche non erano molto buone. Bisogna capire, però, se ci sarà anche un impatto nel lungo periodo. Il 2023 si sta rivelando più critico rispetto al 2022. L’anno scorso c’erano ancora ricche riserve, i supermercati erano pieni di beni occidentali, i pezzi di ricambio si trovavano… In questa fase si sta assistendo a una transizione molto rapida verso la Cina: banalmente, alcuni miei contatti a Mosca mi riferiscono che si vedono in giro molte più persone cinesi rispetto a prima e nei negozi si vendono molti più prodotti cinesi… Entro uno o due anni capiremo se questa transizione sta funzionando davvero».
Perché nel suo video-messaggio del 24 mattina, nel pieno del blitz di Prigozhin, Putin ha fatto riferimento alla Russia del 1917? Perché proprio il 1917?
«Il riferimento è senza dubbio eccessivo. Forse voleva dare l’idea di una situazione di panico, anche per mostrarsi come il rappresentante dell’ordine davanti alla possibilità di una guerra civile, una prospettiva che spaventa tutti ma in particolare spaventa i russi, data la loro esperienza storica. La situazione era molto più simile, semmai, a quella del tentato golpe del 1991 o al bombardamento sulla Duma del 1993. Ma Putin non poteva fare riferimento a quelle crisi».
Perché?
«Perché, quando è salito al potere, si è presentato come colui che avrebbe riportato l’ordine dopo il caos degli anni Novanta. Paragonare la situazione che era in atto a quella del 1991 avrebbe significato mettere in discussione l’intera sua legittimità. Meglio andare a prendere allora un esempio più lontano nel tempo, del quale nessuno ha memoria diretta, ma che mostra comunque lo spettro della guerra civile».
Se dovesse cadere Putin, la Russia rischierebbe la balcanizzazione?
«Bella domanda. Più che di balcanizzazione, parlerei di feudalizzazione. Visto quanto è centralizzato oggi il potere in Russia, c’è sempre il rischio che si creino degli spazi per tensioni a livello locale, ma penso più a tensioni legate al mondo criminale, come fu negli anni Novanta, che non a proteste popolari. Il fatto è che ogni mese è cruciale per modificare la natura del regime, che è sempre più militarizzato: le prospettive di uscita di Putin degli anni scorsi non sono le stesse oggi e non saranno le stesse fra tre anni. Occorre guardare a che tipo di Stato c’è in quel determinato momento, come vanno avanti le lotte interne, quanto un malcontento popolare sopito possa avere margine e contesto realisti, non necessariamente nella forma di rivolte popolari, ma anche solo di sostegno a un cambiamento».
Oggi che tipo di situazione vede?
«Oggi verrebbe da dire – ma siamo sempre nel campo della speculazione – che figure militari avrebbero più chance di succedere a Putin. Poi, però, bisognerebbe vedere se quel sistema potrebbe reggere nel tempo. Inoltre bisognerebbe osservare gli sviluppi della crisi a livello territoriale: nel 1917 la rivoluzione poté avere luogo anche perché i contadini avevano già preso le campagne, ed è sempre nelle periferie, e non solo a Mosca, che si creano le crepe e nascono le rivendicazioni che porteranno al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. La Russia è un Paese in cui contano molto le dinamiche regionali, su cui il Cremlino non ha così tanta influenza. Leggere la stampa regionale russa nei prossimi mesi sarà molto interessante per osservare eventuali cambiamenti in vista».