Che senso ha assegnare un premio Nobel per la pace oggi?
L'opinione di Fulvio Scaglione
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie e tac, arriva puntuale e indifferente il Premio Nobel per la Pace. Il 65 per cento dei 193 Paesi rappresentati alle Nazioni Unite è lontano e spesso lontanissimo dalla democrazia. Il Global Peace Index ci dice che da dieci anni il mondo diventa di anno in anno meno pacifico e che nel 2016 solo 10 Paesi (Botswana, Cile, Costa Rica, Giappone, Mauricius, Panama, Qatar, Svizzera Uruguay e Vietnam) dei 160 esaminati potevano dirsi completamente esenti da conflitti interni ed esterni, e il Qatar come sappiamo è finito fuori lista.
Ma le signore e i signori scelti dal Parlamento norvegese per formare il Comitato del Premio, e che restano in carica cinque anni (l’anno scorso erano Kaci Kullman Five, consigliere degli Affari Pubblici come presidente, poi l’avvocato Berit Reiss-Andersen, Inger-Marie Ytterhorn, consigliere politico del gruppo parlamentare Progress; Thornbiorn Jagland, segretario generale del Consiglio d’Europa; Henrik Syse, professore; Olav Njolstad, professore), pur non esibendo particolari competenze in proposito, celebrano implacabili il rito della scelta e premiazione.
Tra le tante scelte dimenticabili e infatti dimenticate, il Nobel per la Pace si è segnalato come grande distributore di stranezze e illusioni. Al punto che nella nostra fantasia i membri del Comitato assumono le sembianze dei due vecchietti del Muppet Show che, appollaiati in un palco, godevano a fare gli stravaganti, stupendo e rimbrottando tutti.
Ha ricevuto il Nobel per la Pace Barack Obama nel 2009, premiato per il discorso di apertura ai Paesi islamici pronunciato al Cairo. Poi, purtroppo, Obama ha venduto tonnellate di armi all’Arabia Saudita nel 2010 (una fornitura da 63 miliardi di dollari, record Usa di tutti i tempi poi superato da Donald Trump), ha regalato a Israele un incremento dell’assistenza militare da 700 milioni di dollari l’anno per dieci anni e nel 2011 è corso a bombardare (ma solo un tantino) la Libia prima che Francia e Regno Unito si prendessero tutto il merito. Pazienza.
Andando a ritroso, ebbero il Nobel per la Pace nel 1994 Yasser Arafat, Shimon Peres e Ytzak Rabin, protagonisti degli Accordi di Oslo del 1993. Poi, certo gli accorsi sono andati a ramengo e i tre hanno fatto in tempo a combattersi con tenacia, ma pazienza anche qui.
Nel 1973 il riconoscimento andò a Henry Kissinger, e con lui a Le Duc Tho, responsabile politico dell’insurrezione comunista vietnamita che però, caso unico nei 116 anni di storia del Premio, non volle accettarlo. Certo, alle spalle di Kissinger c’era l’accordo di pace raggiunto a Parigi. Ma di fronte ci furono altri due anni di guerra guerreggiata. E in quello stesso 1973, come dimostrato da documenti della Cia recentemente desecretati, il buon Kissinger si dava molto da fare per favorire il golpe del generale Pinochet in Cile.
E poi Menachem Begin e Anwar al-Sadat, i presidenti americani Woodrow Wilson (1919, dopo il Trattato di Versailles che preparò la seconda guerra mondiale) e Theodore Wilson. Mah…
Certo, sull’altro piatto della bilancia è facile mettere Martin Luther King, Lech Walesa, Madre Teresa, De Klerk e Mandela. Ma alla fin fine sono le eccezioni, più che la regola. E forte è il sospetto che un po’ dipenda dal fatto che il Nobel per la Pace è “cosa loro”, dei soliti noti. O degli ignoti potenti. Le candidature (quest’anno 318, ovvero 215 individui e 105 organizzazioni; tante ma non quanto quelle dell’anno scorso arrivate al record storico di 376) possono essere avanzate solo da parlamentari, ministri, capi di Stato, docenti universitari o personalità che abbiano ricevuto il Premio in passato. Quasi un club.
Le candidature di quest’anno fanno temere il peggio. C’è papa Francesco, ovviamente, che fa fine e non impegna, e tanto tutti sanno che non potrebbe accettare. E ci sono anche Donald Trump, Vladimir Putin e Jacques Chirac (non ridete, non è carino). Ma è la shortlist compilata dal Peace Research Institute di Oslo (Prio), un centro ricerche norvegese che con l’organizzazione del Nobel non ha nulla a che vedere ma che spesso azzecca il toto-nomine) a lasciare più basiti.
C’è Federica Mogherini, alto rappresentante della Ue per la Politica Estera e di Sicurezza, con Javad Zarif, ministro degli Esteri dell’Iran. Il loro merito: aver lavorato all’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Accordo che forse durerà poco, se lasciano fare a Trump. Ma soprattutto non si capisce come possa prendere il Nobel per la Pace una esponente del “governo” d’Europa quando nel cuore dell’Europa, in Ucraina, c’è da quattro anni una guerra. Né come possano darlo al ministro degli Esteri dell’Iran, Paese impegnato in plurimi conflitti al di là dei suoi confini.
Poi, nella stessa lista, ci sono i White Helmets, il Corpo di difesa civile sul cui ruolo durante la guerra civile in Siria è lecito sollevare più di un dubbio, e infatti anche il Prio lo fa. Poi c’è la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, cui il Premio andrebbe per il ruolo svolto nel favorire la successione democratica in Gambia. Bella cosa, ma se uno guarda la cartina di quella parte di mondo, nota le dimensioni del Gambia e registra che tutto intorno ci sono Nigeria, Ciad, Niger, Mali e Mauritania, solo per fare qualche nome, con tutti i problemi che sappiamo, si domanda se non ci sia un po’ troppo ottimismo in questa candidatura. E poi ci sono Can Dundar e Cumhuriyet, il giornalista e il giornale che sono diventati il simbolo della resistenza all’autocrazia di Recep Erdogan in Turchia, e l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) per gli interventi a sostegno di migranti e profughi nel Mediterraneo.
Che dire? Parlando di migranti, pare curioso premiare il pur meritevolissimo Commissariato, che però fa il suo mestiere. Non sarebbe stato più giusto e originale darlo, un riconoscimento di quel genere, a Enrico Letta e a Mare Nostrum? Insomma, speriamo in Dundar e nella Turchia del libero pensiero. Anche perché Dundar denunciava il sostegno di Erdogan all’Isis quando tutti, qui, facevano finta di non vedere. Sarebbe, oltre a tutto il resto, anche un bel promemoria.