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Home » Esteri

L’ex ministra Pinotti a TPI: “In Libia l’Italia deve evitare un’escalation militare. Con l’uccisione di Soleimani Trump fa un regalo all’Isis”

Immagine di copertina

La senatrice Roberta Pinotti commenta a TPI gli ultimi sviluppi della crisi tra Usa e Iran innescata dall'uccisione del generale Soleimani e la situazione politica in Libia

TPI intervista l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti

TPI ha intervistato l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti sul ruolo dell’Italia in Libia e sugli ultimi sviluppi della crisi tra Usa e Iran dopo l’uccisione del generale Soleimani e la risposta di Teheran al raid statunitense.

Senatrice Pinotti ha tirato anche lei un sospiro di sollievo?

Vuole una risposta sincera? No.

Perché la crisi non è finita?

La cosa che più mi preoccupa in questo momento è un problema che non tutti hanno messo bene a fuoco.

Quale?

Che il primo beneficiario della mossa, che io giudico sbagliata, di Trump rischia di essere il Daesh.

Intende dire il progetto integralista di un califfato che noi in Italia abbiamo ribattezzato Isis?

Esatto. Il drone non ha colpito solo un uomo, un Generale, ma anche una figura che è stata centrale nell’organizzazione delle milizie sciite contro il Daesh, incrinando drammaticamente un equilibrio che si era determinato a fatica, dopo morti e guerre.

E quindi la presidenza Trump ha messo in discussione quell’equilibrio?

Destabilizzando l’equilibrio della coalizione variegata che aveva portato alla sconfitta militare del califfato (e che aveva prodotto, ad esempio, che nelle battaglie finali contro l’Isis in Iraq si sia pianificata un’azione concordata di truppe irachene, curde e di milizie sciite) si rischia concretamente di riconsegnare spazi e margini di crescita a chi aveva perso sul campo.

Lo dice perché proprio Soleimani era stato uno degli attori di quella vittoria?

Lo dico anche perché i curdi, non dimentichiamolo, sono stati coloro che hanno sostenuto il principale peso militare del conflitto.

Quindi le ultime due mosse dell’amministrazione americana colpiscono curdi e Iran.

Non è del tutto chiaro l’obiettivo finale ma certo alcune mosse hanno creato questo effetto, ad esempio il sostanziale via libera alla Turchia contro i curdi. Il terrorismo fondamentalista del Daesh non è ancora stato definitivamente sconfitto.

E può ritornare protagonista sul piano militare.

Esatto. Una cosa importante da capire sui teatri di guerra al terrorismo in questi anni è che i processi di ascesa e declino sono carsici. A volte sono sotterranei, non visibili. Poi, come abbiamo visto, si manifestano e deflagrano ad una velocità impressionante.

La posizione del governo italiano, in queste ore, viene attaccata, non solo da destra, con l’accusa di un eccesso di prudenza.

È un discorso complesso. Solo chi conosce la Libia può sapere quanto sia stato difficile per noi, dato il passato coloniale, anche solo poter ricostruire una relazione con il governo di Tripoli. I presupposti stessi di un intervento italiano.

Però ci eravamo riusciti.

Esatto con molta fatica e con molti sforzi. Quella che ad alcuni sembra una posizione statica è il prodotto della prudenza estrema che dobbiamo osservare.

E dunque?

Dunque il problema non è questa idea, sbagliata e ridicola, che l’Italia possa mettersi l’elmetto e andare a fare la guerra pro o contro Haftar – ma attuare tutto quello che la nostra diplomazia e tutti gli apparati dello Stato coinvolti avevano già immaginato, predisposto e che, invece, ad un certo punto si è bloccato.

Malgrado la distensione di queste ultime ore Roberta Pinotti, ex ministro della Difesa, una vita in commissione Difesa e Esteri, continua ad essere preoccupata per la precipitazione degli eventi nell’area mediterranea, in Iran e in Iraq. La Pinotti ancora oggi è una delle voci più ascoltate sulla politica estera dentro il Pd, una consigliera di Nicola Zingaretti e ha una idea ben precisa di quello che non è stato fatto, ma sarebbe necessario attuare.

Partiamo dalla Libia, allora, da quel processo incompiuto?

Assolutamente si. Ma bisogna ricostruire il quadro partendo da molto prima degli eventi di ieri.

Facciamolo.

All’inizio del Governo Giallo-Verde c’è stata una girandola di visite ufficiali e incontri, una sorta di corsa a Tripoli, con visite ravvicinate di molti Ministri. Ma purtroppo questo attivismo non ha prodotto accelerazioni concrete sulle cose di sostanza.

A che si riferisce?

La nostra partita con il governo di Tripoli non è mai stata impostata sul piano esclusivo di una partnership militare.

Al contrario di quello che offre la Turchia?

I nostri interventi militari, che nella maggior parte dei casi sono multilaterali, hanno come stella polare la nostra Costituzione.

Allora qual era l’intervento a cui dovevamo dare seguito?

Ci eravamo impegnati per un progetto di ampia cooperazione con il governo di Tripoli dove il sostegno da parte della componente militare, esigua nei numeri, era solo uno dei punti di un accordo più complesso che comprendeva interventi economici, sociali, investimenti, patti bilaterali, anche con i sindaci di molte città e il necessario supporto europeo. A tutto questo non si è dato seguito.

Come mai?

Non lo chieda a me: ho lasciato l’incarico di ministro della Difesa nel giugno 2018 e fino all’agosto di quest’anno, come è noto, il mio partito era all’opposizione. Dico solo che se vogliamo avere un ruolo, evitare l’epilogo drammatico di una guerra civile, costruire i presupposti di un accordo, dobbiamo onorare quegli impegni.

Quindi, per semplificare, non possiamo offrire a Serraj dei cannoni?

È assolutamente così. Ma dobbiamo anche evitare il pericolo più grande: che sentendosi abbandonato dall’Italia, e non avendo le altre contropartite, Il governo di Tripoli pensi che fra l’uovo oggi e la gallina domani sia meglio affidarsi a un’escalation militare. Anche perché un’ulteriore destabilizzazione della Libia produce un altro pericolo.

Quale?

Il rischio che si propaghino e si estendano in Libia le cellule del Daesh contro cui le milizie libiche, ad esempio a Sirte, hanno duramente combattuto. È proprio per curare i numerosissimi feriti di quegli scontri che ci è stato chiesto di insediare un ospedale militare italiano a Misurata. E ricordiamo che il numero dei foreign fighters che hanno combattuto in Iraq e in Siria è ancora molto elevato

E qui si salda quel rischio Isis di cui lei parlava all’inizio di questo colloquio.

Esatto, l’attacco di Trump rafforza i falchi non solo in Iran, ma anche nella loro area di influenza, a partire dal Libano, dove – non dimentichiamolo mai – è in atto, con ottimi risultati, una missione di pace del nostro esercito.

Lei la conosce bene.

Ovviamente sì, e siamo stati decisivi nel 2006 nel fermare il conflitto tra Israele e Libano. Ma se per qualsiasi motivo si rompe quell’equilibrio a cui ho fatto cenno, anche quel teatro d’instabilità, ora congelata e gestita, ridiventa un potenziale pericolo.

Con i militari italiani che si trovano dislocati nei punti di cerniera di questo lungo fronte dell’area di influenza sciita: in Iraq e in Libano.

Esatto. Ecco perché ci riguarda da vicino, ecco perché bisogna essere prudenti. Quello italiano è il secondo contingente per importanza ed entità e sta facendo formazione alle Forze Armate e alle Forze di Polizia irachene. Un’attività fondamentale perché la sicurezza del territorio possa essere mantenuta in modo autonomo dagli iracheni stessi.

E qui si ritorna all’Isis, e al Daesh.

L’ho definito un fenomeno carsico. Ed è l’acqua l’immagine che ci aiuta a capire. In una situazione così liquida gli integralisti in cerca di uno stato cercano spazi ovunque pensano di poter approfittare delle debolezze altrui.

E cosa pensa del doppio vertice saltato tra i due leader libici?

In una situazione così incandescente in Libia, non vedo motivo di attaccare il nostro Governo perché sta lavorando per stemperare la tensione e arrivare ad un ‘cessate il fuoco’. Poi è chiaro come le sensibilità dei protagonisti libici siano particolarmente tese in questi frangenti.

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