Perché non ricordiamo quasi nulla dei nostri primi anni
Già più di cento anni fa il padre della psicoanalisi Sigmund Freud parlava di “amnesia infantile”, e da allora molti psicologi si sono interrogati sull’argomento
Tutti abbiamo, chi più chi meno, dei ricordi della nostra
infanzia, ma escludendo i casi di persone dotate di una memoria clinicamente
straordinaria, i nostri primi anni di vita, dal giorno della nascita ai primi passi,
dalle prime parole ai primi cibi, sono per la maggior parte di noi un grande buco
nero.
Spesso i ricordi che abbiamo, almeno per le generazioni più
recenti, sono in buona parte frutto di fotografie, filmini di famiglia o
racconti degli adulti presenti all’epoca, in primis i nostri genitori, ma se
dovessimo escludere tutto questo corpus di ricordi esterni, probabilmente non
rimarrebbe molto dei nostri primissimi anni.
Già più di cento anni fa il padre della psicoanalisi Sigmund
Freud parlava di “amnesia infantile”, e da allora molti psicologi, neuroscienziati
e linguisti si sono interrogati sull’argomento, apparentemente anomalo visto
che a quell’età i bambini sono come spugne, in quanto a ritmo di assorbimento
di nuove informazioni, ma a quanto pare non riescono a formare chiari ricordi
di quegli eventi.
Come ricorda la BBC in un articolo dedicato alla questione,
nel 19esimo secolo lo psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus condusse una serie
di esperimenti pionieristici su se stesso per testare i limiti della memoria
umana. Inventò quindi le “sillabe nonsense”, una serie di parole inventata
formate da lettere casuali, come “kag” o “slan”, e cercò di
memorizzarne migliaia. I suoi studi dimostrano che nel giro di un’ora il
cervello può dimenticare circa la metà di tutto quello che abbiamo imparato in
un dato momento, e dopo trenta giorni, la quantità di informazioni rimaste
nella memoria ammonta al 2-3 per cento, secondo un aumento esponenziale della
dimenticanza.
Quando però negli anni Ottanta del Novecento gli scienziati
hanno affrontato la dimenticanza nei bambini, hanno notato che tra la nascita e
i 6-7 anni, la memoria è molto più debole del normale: alcune persone possono
ricordare eventi avvenuti quando avevano solo due anni, mentre altri possono addirittura
non avere alcun ricordo fino ai 7-8 anni. Mediamente i primi sprazzi di ricordi
risalgono ai tre anni e mezzo.
La media però è variabile anche a causa di fattori
apparentemente poco legati ai processi mentali, come la nazionalità: la
psicologa Qi Wang della Cornell University ha infatti raccolto centinaia di
ricordi di studenti universitari cinesi e americani, scoprendo che le storie
americane erano più lunghe, più elaborate ed egocentriche, mentre le storie
cinesi erano più brevi e semplici, oltre a essere più tardive di circa sei mesi.
I ricordi “americani”, più dettagliati e concentrati sulle
emozioni vissute più che sul fatto in sé, erano maggiori, e quando Wang ha eseguito
lo stesso esperimento interrogando le madri dei soggetti su quegli eventi, ha
scoperto che lo schema si ripeteva.
“Se la società ti dice che quei ricordi sono
importanti per te, vengono trattenuti”, sostiene la dottoressa Wang. Il
record per i primi ricordi va ai Maori neozelandesi, la cui cultura include un
forte accento sul passato.
Studi hanno dimostrato che è la regione cerebrale dell’ippocampo
la più coinvolta nei processi del ricordo, e alcuni sostengono quindi che la
nostra assenza di ricordi nei primi anni di vita sia semplicemente dovuta al
fatto che esso non sia ancora sufficientemente sviluppato, visto che proprio
nello stesso periodo questo continua a dotarsi di nuovi neuroni.
Il fatto che gli eventi dell’epoca, che sebbene siano stati dimenticati
influenzano inconsciamente i nostri comportamenti futuri, siano completamente
scomparsi non è una certezza: secondo Jeffrey Fagen, della St. John’s
University, “i ricordi sono probabilmente conservati in qualche area della
mente al momento inaccessibile, ma è molto difficile da dimostrare empiricamente”.
Inoltre, altri studi hanno dimostrato che è molto facile convincere persone di ricordi in realtà mai vissuti in prima persona, proprio perché anche molte delle memorie vere che abbiamo sono frutto di elaborazioni successive a partire da oggetti esterni, come immagini o racconti, a dimostrazione che non ci si può mai fidare fino in fondo nemmeno dei propri ricordi.