Le ragazze del Paraguay costrette a fare le schiave per andare a scuola
Carolina era una criadita, una serva domestica. Affidata a una famiglia abbiente che avrebbe dovuto regalarle un futuro migliore, fu ridotta in schavitù e infine uccisa
Le uniche foto disponibili di Carolina Marin sono quelle racchiuse in una cornice dorata strette fra le mani di sua sorella, Angelina Salinas Marin, che da un anno a questa parte chiede giustizia per la sua morte.
Era il gennaio del 2015 quando Carolina, quattordicenne originaria della cittadina di Vaqueria, nel dipartimento di Caaguazù, in Paraguay, venne barbaramente uccisa a bastonate dall’uomo che l’aveva accolta nella sua famiglia fin da bambina, al fine di garantirle un futuro e un’istruzione adeguati. In realtà, l’aveva costretta a vestire i panni della serva che doveva obbedire a ogni suo ordine.
La sua famiglia d’origine non poteva prendersene cura per mancanza di disponibilità economiche. Ultima di sei figli, all’età di tre anni Carolina venne affidata alla coppia composta da Thomas Ferreiro e sua moglie Ramona. Lui era un ex militare in pensione, lei una funzionaria pubblica con un buon stipendio. Una famiglia stimata nel quartiere, benestante e soprattutto insospettabile.
I due erano stati scelti per garantire alla bambina una sicurezza familiare, un equilibrio, un tetto sopra la testa e dei libri sui quali studiare. I genitori biologici di Carolina sottoscrissero semplicemente un contratto vincolante, con il quale s’impegnavano a dare in affido la loro ultimogenita.
Quelli che dovevano essere i suoi genitori adottivi, in realtà si trasformarono nei padroni dai quali la bambina sarebbe voluta fuggire via. Ma non poteva, ormai apparteneva a loro.
In casa, Carolina non aveva il tempo di sognare le stesse cose delle sue coetanee, come abiti, vestiti o viaggi. Le sue giornate erano scandite da faticosi lavori domestici: rassettare, stirare, pulire i pavimenti, cucinare. Questo era il prezzo da pagare per ottenere un’istruzione adeguata e future opportunità lavorative. Almeno era ciò che le veniva raccontato ogni giorno.
Per imparare a leggere e scrivere, Carolina in cambio doveva lucidare i pavimenti rendendoli brillanti. Se non eseguiva alla lettera gli ordini impartiti dall’uomo e da sua moglie, allora fioccavano le punizioni corporali e i pestaggi. I lividi sul suo corpo aumentavano. Alcuni sparivano in fretta, altri impiegavano più tempo. Ogni scusa era buona per scatenare le ire di quello che ormai era diventato il suo padrone.
Un testimone ha raccontato come spesso dentro quell’abitazione si sentissero urla e pianti, ma nessuno avrebbe mai immaginato il tragico epilogo. La famiglia Ferreira era molto rispettata nel quartiere e nessuno avrebbe mai osato sporgere denuncia contro di loro.
I pestaggi invece erano frequenti, fino all’ultimo, quello fatale. Quel giorno, l’uomo scaricò sulla giovane tutta la sua crudeltà, picchiandola selvaggiamente con un grosso ramo d’albero sulla schiena, nella regione lombare, sui glutei, sulle gambe e altrove, causandole lesioni multiple che hanno portato Carolina alla morte.
Dopo la sua morte, il corpo è stato consegnato nuovamente ai suoi tutori e le sue spoglie sono state tumulate in una semplice tomba comunale. Ma il caso di Carolina Marin stavolta non è passato sotto silenzio, scatenando le reazioni di numerosi gruppi per la difesa dei diritti umani che hanno chiesto a più riprese giustizia.
Le criaditas del Paraguay
Tina Alvarenga oggi è una donna laureata e da anni si batte per la difesa delle giovani donne che in Paraguay sognano un’istruzione adeguata, ma che non possono permetterselo per mancanza di denaro. E l’unica alternativa che hanno è andare a lavorare per le famiglie benestanti del paese, finendo per diventare delle vere e proprie schiave.
Tina stessa per otto anni visse in casa con una di queste famiglie abbienti, che in apparenza le avrebbe dovuto garantire una vita diversa rispetto a quella con i suoi genitori biologici, ma che in realtà la ridusse a una semplice serva domestica.
In Paraguay, queste bambine o giovani donne affidate dai loro genitori naturali alle famiglie benestanti è una pratica assai diffusa. Esiste perfino una parole che definisce il loro status (ossia criadita). Nel paese sudamericano, esistono più di 46mila tra ragazzi e ragazze costretti a lavorare in condizioni di schiavitù presso nuclei familiari più abbienti rispetto alle loro famiglie d’origine, al fine di poter acquisire una buona istruzione.
L’accordo è molto semplice: una famiglia numerosa che dispone di pochi mezzi economici per provvedere alle necessità dei suoi membri decide di consegnare un figlio (o una figlia) ancora minorenne a un’altra famiglia solitamente più ricca. In cambio, il bambino riceverà un pasto quotidiano, un tetto sopra la testa e un’adeguata istruzione.
Tuttavia, ciò che non viene volutamente spiegato alla famiglia naturale è che il malcapitato o la malcapitata dovranno svolgere tutti i lavori domestici più faticosi. Lavoro che non viene retribuito in alcun modo. Questi bambini poi non sono esenti da violenze, abusi e maltrattamenti, il tutto nell’ambito di un contratto che non può essere annullato.
Questa pratica è nota come criadzago, piuttosto diffusa in Paraguay e accettata da una fetta consistente della società, nonostante le proteste e le denunce di numerose organizzazioni per la difesa dei diritti umani, locali e internazionali.
Dopo aver terminato i suoi studi universitari, Alvarenga ha lavorato a lungo per un’associazione che difende i diritti dei bambini e delle bambine, raccogliendo le testimonianze di tante criaditas e rompendo il muro di silenzio che spesso circonda gli episodi di violenza a cui sono soggetti i minori.
I bambini e le bambine vivono dentro una doppia illusione. Da un lato, c’è la convinzione della famiglia d’origine che l’unico modo per poter garantire un futuro ai propri figli (generalmente si tratta di famiglie povere e numerose) è quello di affidarli a nuclei familiari economicamente stabili, capaci di garantire loro un futuro, di migliorarne la posizione sociale e far sì che il giovane possa avere più opportunità nella vita.
Dall’altra, c’è la famiglia affidataria che accoglie il minore e ne giustifica il suo sfruttamento così: la loro supposta generosità nell’accoglierli in casa rappresenta l’unica via d’uscita per questi bambini da una condizione di povertà assoluta.
Inoltre, i casi di violenza sui bambini non vengono mai denunciati e le loro famiglie d’origine non sempre lo vengono a sapere per tempo. Ma la morte di Carolina Marin non è passata in sordina e per la prima volta si è parlato pubblicamente di un fenomeno diffuso in molte case e famiglie del Paraguay.
Se la stampa, per un verso, ha riservato poche righe alla storia di Carolina e alla sua triste fine archiviata come incidente domestico, dall’altro, ha spinto le grandi organizzazioni non governative come l’Unicef a denunciare il fatto e chiamare in causa i responsabili della morte della giovane.
La pratica del criadzago è stata definita come una forma moderna di schiavitù. Decine di persone sono scese in piazza a manifestare, chiedendo che non si verifichino più morti innocenti, e la loro protesta è diventata virale sui social media.
“In Paraguay, si ha più rispetto per le mucche che per i bambini”, ha commentato sarcastica Tina Alvarenga. “L’assenza di certificati e documenti di identità rende più facile violare impunemente i diritti dei bambini. Senza tali documenti, è difficile controllare le condizioni in cui vive un bambino.
Nel frattempo, oltre 60 organizzazioni della società civile hanno chiesto la riapertura del caso e giustizia per Carolina e le altre vittime silenziose del Paraguay. La coppia responsabile della sua morte rischia 30 anni di carcere per omicidio, e se il processo dovesse essere avviato, il caso di Carolina potrebbe fare da apripista ad altri mai denunciati nel paese.