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Home » Esteri

Tutti i Paesi del mondo che dicono no all’energia nucleare

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Credit: AGF

Il contributo degli impianti nucleari alla generazione di energia è in calo da trent'anni. Alcuni Paesi hanno dismesso le centrali, altri vogliono spegnere i reattori. Ecco dove e perché

Era il 17 ottobre 1956 quando la regina Elisabetta II inaugurò la prima centrale nucleare commerciale del mondo a Calder Hall, nell’Inghilterra nord-occidentale. «È possibile che dopo il 1965 ogni nuova centrale elettrica costruita sarà una centrale atomica», annunciò, ottimista, l’allora Lord del Sigillo Privato, Rab Butler. Quasi 70 anni dopo sappiamo che la storia è andata in modo diverso.

Le fonti fossili e rinnovabili hanno continuato a rappresentare una componente insostituibile del mix energetico globale e, malgrado il nucleare abbia vissuto una stagione di grande espansione tra il 1971 e il 1996, da quasi trent’anni il contributo atomico alla generazione di energia ha subito un netto calo, anche a causa della chiusura di molti impianti e della scelta politica di rinunciare ai reattori, oggi attivi soltanto in 32 Paesi del mondo.

Numeri in discesa
A fronte dell’entusiasmo iniziale, la crescita del settore ha infatti subito una progressiva frenata. Se prima dell’entrata in vigore del Trattato di non proliferazione delle armi atomiche del 1970 solo 14 Paesi avevano reattori nucleari operativi (tutti in Europa occidentale, Italia compresa, e il resto in Unione sovietica, Usa, Canada, Giappone e India) e altri 16 si aggiunsero al club entro il 1985, negli ultimi 30 anni cinque nazioni (Romania, Iran, Emirati Arabi Uniti, Bielorussia e Finlandia) hanno avviato nuove centrali e altre tre (Turchia, Egitto e Bangladesh) stanno costruendo i loro primi reattori. Intanto però quattro Stati (Germania, Italia, Kazakistan e Lituania) hanno abbandonato i propri programmi atomici, due (Spagna e Svizzera) hanno annunciato l’eliminazione graduale del nucleare e altrettanti (Belgio e Taiwan) hanno deciso di affidarsi alle sole centrali già costruite fino alla fine della loro vita utile, mentre soltanto 10 dei 32 Paesi con impianti attivi stanno costruendo nuovi reattori.

D’altra parte, però, come evidenzia una nuova ricerca realizzata da Teha Group in collaborazione con Edison e Ansaldo Nucleare, se nel 1971 si contavano, a livello globale, 97 impianti di produzione atomica, ripartiti in 15 Stati, con una capacità di generazione pari a 24,3 GW, secondo i dati pubblicati nel World Nuclear Industry Status Report 2024, a distanza di oltre 50 anni il numero di centrali operative è salito nel 2023 a 408, per una capacità installata totale di 367,3 GW. Ma se la fonte atomica ha registrato il picco massimo di generazione energetica a livello globale nel 1996, quando arrivò a fornire il 17,7% dell’elettricità in tutto il mondo, da allora il dato è sceso al 9,15% registrato lo scorso anno, pari a 2.602 TWh, di cui quasi tre quarti prodotti solo da Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Corea del Sud.

Europa, adieu!
Una concentrazione evidente che però si sta spostando sempre più verso Oriente, con una tendenza negativa soprattutto nel Vecchio continente. Se nel periodo tra il 1971 e il 1990, l’Europa e l’America del Nord sono stati i principali contributori allo sviluppo del nucleare, producendo rispettivamente il 49,5 e il 36,6% di elettricità da fonte atomica, tra il 1991 e il 2022 queste quote si sono ridotte a favore dell’Asia, che ormai copre oltre il 20% di generazione energetica con i reattori nucleari. 

Anche i nuovi progetti e le centrali dismesse ne sono una conferma. L’anno scorso infatti risultavano in costruzione 59 reattori in 13 Paesi, di cui 27 in Cina, sette in India, sei in Russia, quattro in Turchia, altrettanti in Egitto, due ciascuno in Corea del Sud e Bangladesh, uno in Iran e un altro in Giappone, mentre sono attivi solo due cantieri nucleari nel Regno Unito e uno ciascuno in Francia, Slovacchia e Argentina. Anche le chiusure sono ben localizzate: nel 2023 sono stati spenti in tutto cinque reattori, di cui tre solo in Germania, uno in Belgio e uno a Taiwan, mentre quest’anno ne è stato chiuso un altro in Russia. Una tendenza complessivamente negativa a livello globale, visto che negli ultimi vent’anni sono cominciati i lavori per 102 nuovi reattori quando in totale ne sono stati spenti 104, ma che è in controtendenza soprattutto in Cina, dove a fronte dei 49 impianti costruiti dal 2004 al 2023 non ne è stato dismesso nessuno, mentre nello stesso periodo il resto del mondo ne chiudeva 51, provocando un calo netto della capacità di generazione elettrica della fonte atomica di 26,4 GW.

Inoltre, degli 807 progetti nucleari avviati tra il 1951 e il 2024, almeno 93 sono stati abbandonati o sospesi in 19 diversi Paesi, pari all’11,5% del totale. Quasi tre quarti di questi cantieri (66) sono stati bloccati in sole quattro nazioni: Stati Uniti (42), Russia (12), Germania e Ucraina (sei ciascuno). Alcuni, come l’impianto tedesco di Kalkar e la centrale di Zwentendorf in Austria, erano addirittura stati completati al 100%.

Nello stesso periodo, un totale di 213 reattori già operativi, pari a 106,2 GW di capacità elettrica, sono stati chiusi in tutto il mondo. Il 62% di questi si trovavano nel Vecchio continente (105 in Europa occidentale e 26 nelle zone centrali e orientali), il 22% (47) in Nord America e solo il 16% (35) in Asia. Altre 190 centrali, situate in 23 Paesi, aspettano invece di essere completamente dismesse. Una tendenza che riguarda anche i reattori realizzati a scopi scientifici. Secondo i dati elaborati dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), solo 226 impianti di ricerca su 840 costruiti in 70 Paesi sono ancora in funzione, mentre 12 si trovano in stato di arresto prolungato, 54 in arresto permanente in attesa di dismissione e 69 sono già in fase di decomissioning.

Grane tecniche e paura atomica
Perlopiù le chiusure non dipendono da scelte politiche ma tecniche. L’età media dei 408 reattori nucleari attualmente operativi in tutto il mondo si attesta intorno ai 32 anni ma i due terzi di questi (269) superano il trentennio e addirittura uno su quattro (127 reattori) è in funzione da più di 40 anni. Tanto che, senza una massiccia estensione della vita utile di queste centrali, sembra inevitabile un calo della flotta nucleare globale entro il 2030.

Un problema che riguarda, di nuovo, soprattutto l’Europa. Ad oggi, solo 13 su 27 Paesi dell’Unione europea utilizzano il nucleare come fonte di generazione elettrica ma i reattori dell’Ue, con un’età media di 37,2 anni, sono tra i più vecchi a livello mondiale, secondi solo agli impianti Usa (con una media di oltre 42 anni) e quasi quattro volte quelli realizzati in Cina (con un’età media di 9,6 anni). Tanto che l’incidenza di questa risorsa sul mix energetico nell’ultimo quarto di secolo è calata del 9,5%. Ma c’è anche chi, nel Vecchio continente, ha scelto di spegnere i reattori a prescindere.

Se i Parlamenti di Austria (1978), Danimarca (1985), Uruguay (1997) e Irlanda (1999) hanno deciso di vietare per legge la produzione di energia da fonte nucleare, nella stragrande maggioranza dei casi, le scelte politiche di spegnere i reattori in funzione o di non avviare gli impianti nucleari in costruzione sono state adottate a seguito di campagne d’opinione alimentate dai principali incidenti atomici, avvenuti nel 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti; nel 1986 a Chernobyl, nell’Ucraina sovietica; e nel 2011 a Fukushima, in Giappone. Secondo i dati della World Nuclear Association, almeno un’ottantina di progetti nucleari sono stati abbandonati e centrali atomiche sono state chiuse definitivamente in tutto il mondo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta e un’altra decina tra il 2011 e il 2017.

I casi più eclatanti riguardano l’Italia, la Lituania e la Germania, che hanno interrotto completamente la produzione dei propri impianti. Il nostro Paese ha avuto quattro reattori in funzione ma dopo il referendum del 1987 seguito al disastro di Chernobyl ha chiuso le centrali, cominciandone la dismissione, affidata dal 1999 alla società statale Sogin, incaricata sia del decommissioning degli impianti nucleari che della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi. Tuttavia, forte del fatto che l’Italia continua comunque a importare elettricità generata da centrali atomiche, nel 2008 il governo Berlusconi IV tentò di reintrodurre la fonte nucleare, ponendosi l’obiettivo di raggiungere il 25% di produzione energetica entro il 2030, una politica respinta da un secondo referendum organizzato nel giugno 2011 dopo la tragedia di Fukushima.

Anche la Lituania, che fino al 2009 produceva il 73,7% dell’elettricità tramite i due reattori di Ignalina, ha dismesso i propri impianti, azzerando la produzione energetica dalla fonte nucleare.  Il caso di Vilnius però è diverso rispetto al nostro: lo spegnimento dei due reattori Rbmk di epoca sovietica è stato un effetto collaterale dei negoziati per l’adesione del Paese all’Unione europea, preoccupata per la sicurezza di un impianto tecnico simile a quello di Chernobyl. Subito dopo però, nell’ambito del piano di interesse comunitario Baltic Energy Market Interconnection Plan (BEMIP), che intende connettere Polonia, Finlandia e Svezia, facendo della Lituania un hub energetico regionale, è stato avviato il progetto parallelo della centrale di Visaginas, situata accanto al vecchio impianto sovietico, vicino al confine con la Bielorussia. Un progetto considerato strategico in vista della disconnessione degli Stati baltici dalla rete elettrica con Bielorussia e Russia prevista all’inizio del 2025 ma messo in dubbio da un referendum consultivo dell’ottobre 2012 che ha respinto il ritorno al nucleare perché considerato troppo costoso. L’iniziativa però è ancora in piedi ed è stata rilanciata subito dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e ancora di più dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022 nel quadro della strategia europea di indipendenza energetica da Mosca.

Berlino invece, che fino al marzo 2011 ricavava un quarto della sua elettricità da 17 reattori nucleari, ha chiuso l’ultima centrale il 15 aprile 2023, dopo oltre 25 anni di dibattiti politici. Già con il primo governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, formato con i Verdi nel 1998, la Germania cominciò a prospettare il graduale abbandono del nucleare, una scelta abbandonata nel 2009 dal secondo governo dell’Unione Cristiano-Democratica di Angela Merkel, che però tornò sui suoi passi nel 2011, proprio a seguito dell’incidente di Fukushima. Allora furono subito spenti otto reattori, fissando il 2022 come scadenza ultima per chiudere tutte le centrali. Nell’ottobre di quell’anno però, a seguito della crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina, la stessa cancelliera prorogò la data fino alla metà di aprile dello scorso anno per compensare la riduzione dell’approvvigionamento di gas dalla Russia.

Sempre al 2011 e alle conseguenze di quanto accaduto in Giappone risale la decisione della Svizzera di dismettere gradualmente la produzione di energia nucleare nei quattro reattori che generano ancora fino al 40% dell’elettricità della Confederazione. Nel giugno di quell’anno infatti il Parlamento decise di non sostituire più alcun reattore, una scelta confermata da un referendum del maggio 2017 che prevede lo spegnimento delle centrali ancora attive. È invece del dicembre scorso la decisione della Spagna di abbandonare il nucleare entro il 2035 quando dovranno essere spenti tutti i sette reattori attualmente operativi nella Penisola iberica, che verranno disattivati a partire dal 2027.

Al di là degli annunci politici però, dall’inizio del millennio, altri Paesi in Europa hanno ridotto la quota del nucleare nel proprio mix energetico, come il Belgio (-16,1% dal 2000), la Francia (-12,1%), la Svezia (-10,9%), la Bulgaria (-4%) e i Paesi Bassi (-1%). Qualcuno invece ci ha ripensato.

Ripensamenti ufficiali
Il caso lituano infatti, con la dismissione di Ignalina e il piano per Visaginas, non è isolato. Dopo aver spento nel 1999 l’unico reattore nucleare di epoca sovietica, che dal 1972 produceva elettricità e desalinizzava l’acqua, il Kazakistan, che detiene il 12% delle risorse globali di uranio e dal 2009 ne è il principale produttore mondiale, è tornato sui suoi passi. Dal 2006 al 2010 ha firmato una serie di contratti con Russia, Cina, Giappone, Canada, India e Corea del Sud per costruire nuovi reattori, una decisione confermata dal recente referendum del 6 ottobre scorso, con cui oltre il 73% dei votanti ha approvato la costruzione della prima centrale nucleare nazionale.

Anche i Paesi Bassi però, che nel 2018 avevano annunciato la dismissione totale degli impianti atomici entro il 2030, ci hanno ripensato, estendendo nel 2021 la vita utile dell’unica centrale nazionale di Borssele oltre il 2033 e programmando l’anno successivo la costruzione di due nuove centrali a partire dal 2028.

Una decisione a cui, sempre nel 2018, si è accodato anche il Belgio, che nel 2003 aveva deciso di spegnere tutti i reattori entro il 2025. Ma con la crisi innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, nel marzo 2022, Bruxelles ha rinviato ogni decisione sui tre reattori ancora operativi di altri dieci anni, mentre i due più recenti, Doel 4 e Tihange 3, potranno restare in funzione almeno fino al 2035.

Ma il caso più sorprendente di ripensamento in materia resta quello del Giappone. Sebbene il fattore Fukushima abbia avuto un’indubbia influenza sulla scelta di diversi Paesi europei di rinunciare alla fonte atomica, il Paese che è stato direttamente interessato dalla tragedia è anche uno dei pochi a essere tornato sui propri passi. All’inizio del 2011, l’energia nucleare rappresentava quasi il 30% della produzione totale di elettricità nipponica, mentre il governo del premier Naoto Kan prevedeva di aumentare questa percentuale fino al 41% entro il 2017 e al 50% entro il 2030. Tuttavia, dopo il terremoto e il conseguente tsunami che nel marzo di quell’anno provocarono oltre 19mila vittime, investendo anche la centrale di Fukushima Dai-ichi, le autorità sospesero le attività di tutti i 33 reattori atomici ancora operativi.

Soltanto due anni dopo però, la Nuclear Regulation Authority giapponese stabilì nuovi requisiti di sicurezza, consentendo da allora di riaccendere 13 impianti, mentre altri 12 sono in attesa di poter tornare operativi e due sono in fase di costruzione. Intanto, nel giugno 2015, il governo del defunto Shinzo Abe approvò un nuovo piano energetico, tuttora in vigore, fissando un obiettivo compreso tra il 20 e il 22% di generazione di elettricità da fonte nucleare da raggiungere entro il 2030 per ridurre le emissioni di CO2.

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