Jamal Khashoggi è stato assassinato un anno fa ma le sue idee sono più vive che mai
Un anno fa Jamal Khashoggi entrava nel consolato a Istanbul per non farne più ritorno
Il primo anniversario dell’omicidio di Jamal Khashoggi: “Vive in noi”
Il 2 ottobre ricorre l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. I mesi passano, ma giustizia non è ancora stata fatta.
Esattamente un anno fa, Khashoggi – commentatore arabo e dissidente in esilio – entrava nel consolato saudita a Istanbul per non farne più ritorno.
A seguito dell’omicidio, una manciata di ufficiali sauditi di Riyadh sono stati arrestati, ma l’intelligence statunitense crede che anche il principe saudita Mohammed bin Salman fosse a conoscenza del complotto.
Il membro della famiglia reale ha sempre negato tali accuse, e nel frattempo, col supporto di Trump e dei suoi alleati, ha riguadagnato una posizione di rilievo nel panorama politico globale.
Tuttavia, il ricordo di Khashoggi rimane nitido a livello internazionale.
Omicidio Khashoggi: dalla scrittura all’attivismo
Nato in una famiglia privilegiata, Khashoggi diventò conosciuto ai giornalisti occidentali per essere uno scrittore legato all’élite del regno saudita. Ma era un infiltrato, non un dissidente.
Nel tempo, Khashoggi abbracciò ideali opposti a quelli della corte di Riyadh: dalla liberalizzazione politica ai diritti democratici. Per questo e per le manifestazioni pro-democrazia del 2011, Khashoggi fu esiliato.
Tamara Cofman Wittes, membro della Brookings Institution, ha spiegato: “Jamal ci mise di più degli altri ad arrendersi all’idea che il suo governo non potesse cambiare; le informazioni che possedeva sul regime saudita resero chiaro che se voleva parlare doveva andarsene”.
La rubrica di Khashoggi nel “The Washington Post” lo rese un facile bersaglio. In più occasioni, l’attivista criticò con dure parole l’intromissione dell’Arabia Saudita nelle faccende dello Yemen.
E seppur non rifiutasse i progetti di modernizzazione del Paese, oppose sempre la persecuzione dei dissidenti e gli attacchi ai partiti islamici della regione.
“La monarchia saudita può dichiarare di essere progressista quanto vuole con i suoi piani di modernizzazione entro il 2030 e i tentativi di corteggiare i leader occidentali. In realtà però, ha semplicemente legalizzato un’eredità di violenza e repressione da parte della monarchia reggente lunga secoli. L’assassinio di Jamal e la tortura di varie attiviste donne l’hanno finalmente reso evidente”, ha commentato Hala Al-Dosari, scrittore e dissidente saudita.
Il Washington Post difende Khashoggi: “Era un infiltrato, non un dissidente”
“Per le comunità arabe dissidenti in esilio e nella regione – ha detto Mohamed Soltan, attivista egizio-americano – [Khashoggi] offrì un esempio che era mancato dalla caduta della Primavera Araba”,”Al contrario di molti altri dissidenti, Jamal sapeva come apportare modifiche dall’interno dei circoli di potere. Parlava spesso dei modi in cui i buoni riuscivano a cambiare le cose dall’interno di sistemi difettosi”.
Gli alleati oltremare di Khashoggi accettarono di buon grado il suo supporto della democrazia e del pluralismo, per costruire uno spazio politico tollerante in quei Paesi in cui si era dimostrato troppo elusivo.
“A meno che gli islamisti e i liberali non siano d’accordo sul rapporto tra la regola delle maggioranza e i diritti individuali, non saremo mai in grado di coesistere pacificamente – e non conseguiremo né la regola della maggioranza né i diritti individuali” ha scritto Ezzedine Fishere, professore al Darmouth College.
“I dittatori continueranno a giustificare il loro autoritarismo spiegando di averne bisogno per mantenere la pace tra le due fazioni che non riescono ad accordarsi sulle basi di una coesistenza pacifica. E avranno ragione”, ha continuato Fishere.
Per tutta la vita, Khashoggi cercò sempre di dimostrare che i dittatori avevano torto. Anche dopo la morte.
Quest’anno in molti Paesi arabi, infatti, varie fazioni si sono ribellate allo status quo, nonostante gli eserciti schierati contro di loro.
“I sauditi e gli Emirati Arabi Uniti hanno dato miliardi a supporto del regime militare del Sudan con la speranza che facesse fronte a una protesta di massa, ma i generali hanno invece stretto un accordo per avviare una transizione verso la democrazia. Anche l’Algeria ha assistito alla nascita di un potente movimento democratico, e la Tunisia a delle presidenziali davvero competitive. Altre proteste sono scoppiate in Egitto, dove il regime militare ha ricevuto miliardi dai sussidi sauditi, dopo che il messaggio di un imprenditore dissidente è diventato virale” ha commentato il Washington Post.
“I dittatori possono scegliere di proteggere gli interessi occidentali, ma non possono salvarne lo spirito”
Ilyad el-Baghdadi, altro attivista arabo in esilio, crede che il silenzio di Riyadh sull’assassinio di Khashoggi faccia parte di un piano ancora più grande per sopprimere il dissenso generale.
“Quando Jamal scelse l’esilio nell’estate del 2017, mancavano poche settimane a una grande ondata di arresti di dissidenti e intellettuali – ha spiegato el-Baghdadi – Ma c’era una cosa che molte vittime avevano in comune: grandi seguiti sui social media. Più che colpire i dissidenti, gli arresti facevano parte di un piano per indebolire e sconfiggere gli ultimi ‘spazi’ aperti e inclusivi della vita pubblica araba”.
Infine, stupisce la scelta di molti governi occidentali, come l’amministrazione Trump, di allearsi con l’Arabia Saudita anziché incolparne il comportamento.
“Jamal, sia per la sua lotta contro le perfidie del regime saudita sia per la sua orribile morte, simboleggerà per sempre la perseveranza della profonda ribellione dei musulmani contro i loro dittatori tirannici”, ha concluso l’editorialista turco Asli Aydintasbas.
“I leader occidentali possono scegliere di lavorare con questi despoti. Ma l’esempio di Jamal ci ricorderà sempre che un giorno anche loro dovranno fare i conti con l’instancabile folla che li circonda. I dittatori possono proteggere gli interessi occidentali, ma non possono salvarne lo spirito”.