L’ombra di Mosca sul nuovo Kazakistan: il reportage
Sulla scia delle proteste represse a gennaio con l’aiuto di Putin, il presidente kazako Tokayev punta a democratizzare il Paese, dopo 30 anni di dittatura sotto Nazarbayev. Ma deve guardarsi le spalle da Cina e Russia. Il reportage dell’inviato di TPI a Nur-Sultan
In cima al Bayterek, la palla scintillante che domina la capitale kazaka, gli avventori si mettono in fila per salire su un podio e mettere la mano nel calco d’oro zecchino di quella di Nursultan Nazarbayev, l’uomo forte vicino a Vladimir Putin che ha governato per trent’anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Non sono turisti ma donne, uomini, vecchi e bambini kazaki arrivati dalle campagne di questo sterminato Paese di steppe, senza accesso sul mare, per rendere omaggio al “leader della nazione” (“Elbasy”), che solo negli ultimi anni si è rassegnato a rinunciare a ruoli ufficiali. È un pellegrinaggio che va avanti dall’inaugurazione della struttura nel 2002. «Fu lui a fare uno schizzo di questo edificio su un tovagliolino e venne subito realizzato», recita una funzionaria in divisa al centro della sfera dorata con vista a volo d’uccello sui vialoni della città. «Ci troviamo a 97 metri di altezza, un riferimento all’anno 1997 quando la capitale venne spostata ad Astana. Dal 2019 si chiama Nur-Sultan, in onore di Nazarbayev». Ma il baricentro del Kazakistan sembra allontanarsi dalla palla dorata che si staglia nel centro di Nur-Sultan. Almaty, vicino alla Cina, rimane il cuore pulsante del Paese, con la sua economia dinamica e le sue attività culturali (ci sono già 13 mila prenotazioni per i nuovi voli diretti dall’Italia, partenza il 12 giugno da Milano). Nel frattempo si fa sempre più ingombrante il ruolo economico di Pechino.
E non è solo la città di Nazarbayev a rimanere in seconda fila: la scorsa domenica si è tenuto un referendum con lo scopo dichiarato di segnare uno spartiacque dalla stagione politica del vecchio leader. «Oggi è iniziata una nuova era nella storia del Kazakistan indipendente, costruiremo insieme un nuovo Paese», ha detto il presidente Kassym Tokayev, annunciando l’inizio di una seconda repubblica all’insegna della democratizzazione.
Nella consultazione, secondo le cifre ufficiali, il 77 per cento dei kazaki ha votato per gli emendamenti costituzionali che limitano i poteri del presidente, rafforzano il Parlamento e formano una Corte Costituzionale. I familiari del premier non potranno avere ruoli nelle istituzioni o nelle aziende parastatali, dopo che i parenti di Nazarbayev avevano creato un clan di accoliti ai vertici dello Stato. I proclami del governo sul grande avvento della democrazia vanno però presi con le pinze. «Per tanti anni in Kazakistan c’è stata una discrepanza fra la lettera delle nostre leggi e la realtà del funzionamento del Paese», ha detto Indira Aubakirova, professoressa di legge kazaka coinvolta nella stesura degli emendamenti. «Ora davanti a noi abbiamo parecchio lavoro da fare».
«Con Nazarbayev siamo rimasti in fondo alla classifica del Democracy Index mentre corruzione e nepotismo dominavano la società secondo logiche familistiche e tribali. Ora dipende dal governo e dalla popolazione se le riforme si rispecchieranno nella realtà», continua la professoressa, mentre un superiore la riprende per i commenti “indisciplinati”. «Dobbiamo cambiare mentalità», conclude. L’economia è attraversata da forti disuguaglianze e si sviluppa secondo iniziative dall’alto: perfino le ong nascono da un incubatore statale, retaggio dell’epoca sovietica.
Un orso per amico
Nurgul, una musicista di flauto di 42 anni, è andata a votare sì al referendum costituzionale del 5 giugno. Abita ad Akmol, un villaggio 30 chilometri a ovest di Nur-Sultan, vicino al gulag per sole donne di Alzhir che in epoca sovietica sorgeva nella zona. «Voglio un nuovo Kazakistan, in cui si parli sempre meno russo e sempre più la nostra lingua locale», ha detto uscendo dal seggio elettorale.
I paladini del “nuovo Kazakistan” vedono il referendum anche come un passo verso una rinnovata autonomia culturale rispetto alla Russia. Nel periodo sovietico il russo si era imposto al punto da relegare il kazako, lingua centro-asiatica influenzata anche dal turco e dal cinese, a un ruolo marginale. Al punto che oggi parecchi kazaki fanno fatica a esprimersi nella lingua nazionale.
«Vogliamo promuovere il ruolo del kazako ma dobbiamo farlo con molta prudenza», spiega Nurbek Sayasat, deputato del Majlis, la Camera bassa del Parlamento kazako. «In fondo, proprio la questione della lingua è stato un fattore determinante nel provocare l’invasione russa dell’Ucraina». Il deputato ricorda come, nel Kazakistan settentrionale, scorra una frontiera di 8 mila chilometri con la Russia di Putin. «Non possiamo permetterci di fare come la Finlandia, che vuole entrare nella Nato, con uno dei confini più lunghi al mondo del tutto indifeso», dice nella sede di “Kazmedia”, un palazzone di uffici di televisioni kazake.
La guerra in Ucraina ha costretto anche questa repubblica ex-sovietica, l’ultima a dichiarare l’indipendenza, a riflettere sulla propria traiettoria politica. A destare preoccupazione c’è anche la presenza di una minoranza russa che, malgrado sia molto ridimensionata dall’emigrazione rispetto all’inizio degli anni Novanta, rappresenta ancora il 20 per cento circa della popolazione ed è concentrata proprio nelle zone settentrionali. «Se sei uno scoiattolo e hai un orso per amico, è sempre meglio guardarti le spalle, anche una carezza, con quegli artigli, può lasciarti delle cicatrici», scherza un rappresentante politico kazako. «È un vecchio detto siberiano».
A gennaio Mosca è intervenuta per consentire al regime di reprimere un’ondata di proteste e disordini in cui hanno perso la vita oltre 200 persone. I moti sono iniziati come manifestazioni pacifiche contro l’aumento del prezzo della benzina nelle province occidentali del Paese. Ricchissimo di risorse fra cui gas e petrolio, il Kazakistan sfrutta i giacimenti tramite consorzi locali e partner internazionali, fra cui l’Eni, e oggi può permettersi di distribuire benzina a un quinto del prezzo italiano.
Ma sei mesi fa la situazione è sfuggita di mano quando gruppi armati senza una dichiarata affiliazione politica hanno cavalcato la rivolta popolare. Ad oggi nel Paese si inseguono teorie cospiratorie su chi abbia deciso di destabilizzare il Paese: massimi vertici istituzionali citano sottovoce un presunto coinvolgimento di Nazarbayev, che avrebbe voluto restaurare il proprio potere. Gruppi nazionalisti kazaki ipotizzano persino delle prove generali russe alla vigilia della guerra in Ucraina. Sulle dinamiche degli eventi non è stata fatta chiarezza. Quello che è certo è che, senza l’intervento di Mosca, difficilmente Tokayev sarebbe riuscito a riportare l’ordine nel Paese.
Il referendum del 5 giugno è anche figlio di quella settimana e mezza di caos. «Gli eventi di gennaio hanno fatto da catalizzatore per il processo di riforme», dice Roman Vassilenko, vice-ministro degli Esteri kazako. Prima di congedarsi per andare a una cena a base di whisky e carne di cavallo, il piatto nazionale più diffuso, sceglie una citazione non molto incoraggiante per descrivere la fame di cambiamento del governo. «Come diceva Winston Churchill, la democrazia è il peggiore sistema di governo in assoluto», conclude l’ex ambasciatore kazako. «A parte tutti quelli che abbiamo provato finora».