Finiti gli scrutini elettorali, la Repubblica Ceca si presenta ancora una volta come un Paese frazionato, il cui sistema proporzionale renderà difficile un governo privo di una vera maggioranza. Il primo partito è ancora una volta, epiteto ripetitivo e onnipresente, il partito dell’astensione.
Alle urne, venerdì e sabato 24 e 25 ottobre, si è presentato solo il 59 per cento della popolazione.
La disillusione dei cechi verso la politica era annunciata da tempo dai sondaggi e più prosaicamente dalle chiacchiere nelle hospoda, le birrerie, da queste parti i centri di studi politici per eccellenza.
Veniamo ai numeri. Sulla carta un vincitore c’è, anche se la vittoria è ridotta rispetto alle aspettative della vigilia. È il partito socialdemocratico del ČSSD, guidato da Bohuslav Sobotka, che con il 20,45 per cento ha la maggioranza relativa; notiamo subito che anche nel 2010 il partito vinse le elezioni, ma fu costretto all’opposizione.
Il secondo partito è la grande sorpresa della tornata, ANO 2011, la nuova formazione del magnate Andrej Babiš. Il re dei media è entrato in politica a raccogliere i voti persi dal vecchio governo di centro-destra, che ha bruciato la fiducia degli elettori tra i scandali e litigi. Investendo in un’enorme campagna mediatica, la retorica del self-made man dalle mani pulite e dalla rassicurante sicurezza di tasche piene, Babiš ha raggiunto il notevole 18,65 per cento, meno di due punti dietro i socialdemocratici: per la stampa ceca, è lui il vero vincitore (inciso corretto, ma da prendere con le pinze, data la sua proprietà di una buona fetta della stampa stessa).
Al terzo posto i comunisti del KSČM, poco sotto il 15 per cento, risultato previsto (leggermente limitato, forse) e con un preciso riscontro sulla mappa: la provincia, le aree meridionali o la regione di Ostrava, il grande centro siderurgico e carbonifero, nell’est del Paese, stretto tra inquinamento e grande disoccupazione. Lì dove anche il marketing televisivo ha potuto poco contro la forte necessità di una mano concreta. Esatto opposto la prospera regione di Praga, roccaforte del partito liberal-conservatore del principe Karel Schwarzenberg (TOP 09), che raggiunge il 12 per cento. La distanza politica e quella geografica combaciano perfettamente.
Sotto il 10 per cento troviamo ancora tre partiti del centro-destra, l’ex partito di governo ODS (i Democratici-Civici) al 7,72 per cento (ben 13 punti in meno rispetto al 2010), il partito Usvit, ovvero “l’alba della democrazia diretta” di Tomio Okamura (al 6,8 per cento), e i cristiano-democratici KDU (6,7 per cento) che nonostante i timori della vigilia riescono a passare la soglia del 5 per cento ed entrare in Parlamento. Se la prima sorpresa è stato il partito ANO 2011, la seconda viene da Okamura. Un partito populista che sembra una contraddizione, chiare origini giapponesi del leader ma con tendenze destrorse e nazionaliste.
Ancora una volta senza deputati il partito dei verdi e quello dei pirati, e a secco – nonostante il capo dello Stato sia il loro numero uno – anche il partito degli zemanovci, “gli amici del presidente” Miloš Zeman, che raccolgono un misero 1,5 per cento: il dito medio di David Černý deve aver colto nel segno.
Questo il caleidoscopio elettorale. A chi il governo? Passato un giorno dai risultati, la soluzione non è affatto semplice. Il preannunciato governo socialdemocratici-comunisti sembra lungi dall’avere i numeri necessari (rispettivamente 50 e 33 seggi su 200 totali), mentre Babiš ha dichiarato che si schiererà all’opposizione. Nel frattempo quella che pare una vittoria di Pirro ha mandato nel caos la leadership socialdemocratica, con diversi quadri che chiedono le dimissioni di Sobotka per un risultato sotto le aspettative (dimissioni che per ora il segretario non prende in considerazione). La matematica segna una maggioranza tra i sei partiti di centro-destra rispetto ai due a sinistra, ma tra i primi non corre necessariamente buon sangue.
Il presidente Zeman, domenica pomeriggio, è intervenuto sulla tv pubblica con un messaggio poco ottimista e un tocco di humour: il voto, prende nota, ha dimostrato il fallimento del governo, e il fallimento dell’opposizione. Il capo dello Stato si affida ora alla responsabilità dei partiti nel trovare un accordo per un governo stabile, dato che tornare alle urne in tre mesi “non avrebbe senso e non cambierebbe nulla”.
Il 28 ottobre è la festa nazionale, che porti bene.
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