Non è un Paese per donne
La costituzione afghana del 2004 sancisce la parità di diritti tra uomo e donna. La realtà però è ben diversa
Non è un Paese per donne
Cosa significa nascere donna in Afghanistan? Chiedetelo a Fariba, a Simagol, a Vasijeh, alle spose bambine e alle madri fuggite dalla sorte che i loro uomini, padri e mariti, hanno deciso per loro. Matrimoni forzati, violenza domestica, stupro, prostituzione coatta, mutilazione, analfabetismo, mortalità materna, suicidio e auto-immolazione, torture e pena di morte per “crimini morali”.
Questo non è un Paese per donne. L’aspettativa di vita media per le donne in Afghanistan è di appena 44 anni. A gennaio 2012 vi erano 400 donne nelle carceri in Afghanistan per “crimini morali”. Avrebbero progettato una fuga da un matrimonio combinato o sono state condannate per “zina”, per aver avuto rapporti sessuali extraconiugali, quindi illegali, ai quali il più delle volte sono costrette dalla prostituzione forzata, da esami medici “invasivi” che ledono la loro reputazione e dallo stupro.
Fariba ha 11 anni, tiene sempre tra le mani una foto di qualche tempo prima, quando ancora il futuro poteva sognarlo con gli occhi di una bambina. Ora il suo volto è ustionato, la pelle raggrinzita e ferita, le palpebre semichiuse, come trafitte da spilli. Le bruciature Fariba se le è provocate da sola: si è data alle fiamme dopo un sogno rivelatore. Non è chiaro se il gesto sia stato motivato da abusi familiari. Come lei, sono centinaia le donne che tentano il suicidio e si sfregiano per sottrarsi a un’esistenza di soprusi e sevizie.
Nell’Afghanistan che lentamente si sta aprendo a una graduale e maggiore partecipazione delle donne nella vita politica e sociale, il femminicidio è alimentato dal pregiudizio di una società che ancora si auto-definisce al maschile. A Herat e lungo il confine iraniano la subordinazione giuridica, politica, quella psicologica e quella fisica delle donne è all’ordine del giorno. Nulla sembra esser cambiato da quando al governo imperava la milizia dei talebani.
Se allora a mancare erano le garanzie legali e i diritti elementari, oggi le donne afghane, pur potendolo fare formalmente per legge, non studiano né lavorano, non lasciano la propria abitazione senza esser scortate dai loro uomini, non scoprono i loro capelli e nascondono la loro pelle e le loro forme. La Costituzione afghana, approvata all’unanimità nel 2004, stabilisce la parità di diritti tra uomini e donne, consentendo alle donne di lavorare fuori casa e di impegnarsi nell’attività politica, eppure la segregazione fisica imposta dalla “purdah” è ancora praticata.
L’87 per cento delle donne afghane è analfabeta, le ragazze più giovani temono per la propria incolumità e inviolabilità fisica e pertanto rinunciano ad andare a scuola. Vivono come isole disperate, sospese a fatica nel mare piatto dell’indifferenza e della repressione, e sempre più spesso trovano come unica fuga quella del suicidio e dell’immolazione.
Gran parte di loro è costretta a sposarsi in età pre-adolescenziale con uomini adulti se non vecchi, subisce violenza sessuale e una gravidanza quando ancora lo sviluppo psichico e quello fisico (muscolatura e struttura ossea) non sono compiuti. È anche per questa ragione che l’Afghanistan “è uno dei luoghi più pericolosi al mondo per le donne incinte”, come conferma il rapporto sulla mortalità materna dal Ministero afghano della Sanità, l’Unicef e il Centro statunitense per il Controllo delle Malattie e la Prevenzione.
Nel Paese “muore una donna ogni 27 minuti da una condizione connessa alla gravidanza che si può prevenire, nella maggior parte dei casi, con strutture sanitarie adeguate e assistenza medica. Solo il 14 per cento delle donne ricevono assistenza medica qualificata durante i parti.” Nelle zone rurali più remote mancano, inoltre, alcune forniture fondamentali come l’acqua potabile, l’illuminazione e strumenti chirurgici sterilizzati, pertanto il rischio di infezioni e diffusione di malattie è altissimo.
“In Afghanistan c’è tanta violenza e pregiudizio verso le donne. Proprio per questo, quando vengo qui e faccio pugilato mi sento libera”. Così ha riferito Shahla Sekandari, ventenne e donna- pugile, membro della squadra di boxe che rappresenterà l’Afghanistan alle imminenti Olimpiadi di Londra. Lo sport al femminile fino a qualche anno fa era un tabu e Sahla è solo uno dei volti dell’avanguardia femminista del Paese che chiede l’effettività del cambiamento. Eguaglianza sostanziale, giustizia sociale e rimozione dei limiti all’acquisizione dei diritti economici, civili e politici delle donne. Questo è l’Afghanistan che vuole rinascere donna.