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Navigare lungo le BRI: l’evoluzione del progetto ed il ruolo per l’Italia

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Oggi sono più chiare le ragioni della Belt and Road Initiative. Un progetto che, pur guardando al futuro, conserva il fascino della riscoperta delle antiche rotte della Via della Seta

La Belt and Road Initiative (BRI), lanciata dal presidente cinese nel 2013, è giunta al suo decimo anno di vita e ha celebrato questo ottobre a Pechino il Terzo Forum alla presenza di oltre 110 paesi presenti. Nel tempo questo progetto è diventato sempre più importante per Pechino, al punto da essere stato inserito sia nella Costituzione della Repubblica Popolare che nello Statuto del Partito comunista.

Una delle sue caratteristiche è proprio il fatto di avere un carattere “aperto”: non esiste una singola tratta ma molteplici vie per collegare la Cina col resto del mondo. Esattamente come avveniva ai tempi degli antichi romani e ancora dopo, durante il nostro Medio Evo, quando le rotte dei carovanieri costituivano un dedalo di strade che permettevano il commercio (e soprattutto la reciproca conoscenza) tra Oriente ed Occidente. Se qualcuna di queste tratte diventava impraticabile il traffico si riversava subito su un’altra, oppure si adoperavano le rotte marittime. In questo modo, per lungo tempo, le comunicazioni sono rimaste aperte. Con lo stesso spirito, la nuova Via della Seta intende collegare la Cina con il mondo intero mantenendo questa caratteristica di apertura. Gli oltre 150 paesi coinvolti non rappresentano un campo chiuso, né ambiscono a costituire un blocco geopolitico: sono punti nevralgici di un immenso reticolo di connessioni che li tiene assieme.

La BRI costituisce, innanzitutto, un salto di qualità nel modo con cui la Cina si approccia alle regole internazionali. Se infatti per lunghissimo tempo Pechino ha dovuto adattare le proprie strategie nazionali ad un contesto di regole internazionali scritte da altri, con questo progetto si afferma nel proscenio internazionale come soggetto in grado di contribuire, con la propria agenda, alla trasformazione del sistema di governance globale.

Le ragioni di una scelta

Una delle ragioni principali che hanno spinto il gruppo dirigente cinese a lanciare questo progetto si ritrova esattamente nell’esigenza di fornire una risposta alla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti e nell’Eurozona. Piuttosto che praticare politiche di austerity, la Cina ha deciso di esportare all’estero la capacità produttiva in eccesso del Paese, bilanciando così l’insufficiente livello globale di investimenti post-crisi con una potenza di fuoco economica sostenuta con la nascita di due istituzioni finanziarie: il Silk Road Fund e l’Asian Infrastructure Investment Bank, AIIB.

A questo si aggiunge una complessa rete di infrastrutture che permette di velocizzare non solo la movimentazione delle merci ma anche lo scambio di persone, rendendo agevoli connessioni che in passato richiedevano tempi più lunghi di percorrenza e costi più alti. Ma affinché questo reticolo di connessioni sia possibile – e qui tocchiamo un punto nevralgico del progetto stesso – è necessario che l’area coinvolta sia pacificata ed i paesi attraversati dialoghino e cooperino tra di loro. Non è quindi un caso che, parallelamente all’ampliamento ed al rafforzamento dell’iniziativa BRI, la diplomazia di Pechino sia diventata più attiva nel proscenio internazionale ed i risultati non si sono fatti attendere. Due paesi con storiche rivalità e dispute come India e Pakistan sono entrati nel 2017, assieme, nella Shanghai Cooperation Organization e due storici rivali come l’Iran e l’Arabia Saudita hanno deciso di ripristinare le relazioni diplomatiche (grazie ad uno storico accordo mediato proprio da Pechino a marzo scorso) e, dal primo gennaio prossimo, entreranno congiuntamente nel gruppo dei paesi BRICS+.

Se l’unico modo per strutturare la BRI è la cooperazione ed il dialogo tra paesi, questa prassi ed i risultati che sta portando, segnerà profondamente l’evoluzione delle relazioni internazionali degli anni a venire.

L’Italia e la Via della seta

L’interesse italiano per la Via della Seta è cresciuto nel tempo, culminando con l’adesione al Memorandum nel 2019 durante la visita di stato di Xi Jinping in Italia. Questo processo di integrazione è stato preceduto da un aumento degli investimenti cinesi in Italia a partire dal 2008 (è bene ricordare che, negli anni successivi, la Banca centrale cinese arrivò a possedere l’1% di capitalizzazione di Borsa Italiana) e tante erano le acquisizioni di aziende italiane in settori chiave per lo sviluppo cinese. Pechino mirava a migliorare la catena del valore acquisendo tecnologia, know-how e marchi italiani, mentre l’Italia cercava un ruolo geopolitico attraverso l’adesione all’AIIB e la partecipazione del Presidente del Consiglio (unico paese del G7) al Primo Belt and Road Forum del 2017. Sempre in quella prima fase furono siglati vari accordi per potenziare la cooperazione, come la firma di un memorandum per attività congiunte in Africa e nei Balcani ed il Piano d’Azione per il rafforzamento della cooperazione. Anche alcune città italiane coinvolte nella Belt and Road hanno stretto accordi, come Venezia con il Porto del Pireo e Genova con la CCCC, un’azienda di stato cinese leader nelle costruzioni infrastrutturali. A livello politico, invece, gli obbiettivi individuati per la partecipazione italiana alla BRI erano legati principalmente all’esigenza di aumentare l’export dei prodotti italiani in Cina per ridurre lo squilibrio nella bilancia commerciale. Un obbiettivo sicuramente importante ma con un’ottica decisamente di breve termine.

Negli ultimi tempi, complice il mutato contesto geopolitico ed il braccio di ferro intrapreso con Pechino prima da parte degli Stati Uniti e poi dall’Unione Europea, l’interesse italiano nel progetto sembra affievolirsi. Secondo uno studio dello Shanghai International Shipping Institute, nel 2030 «il traffico di merci movimentato dai porti cinesi raddoppierà salendo a oltre 25 miliardi di tonnellate, il traffico container sarà pari a 105 milioni di TEU, saranno almeno 40 milioni di TEU che si muoveranno lungo la Via della seta marittima da e per l’Europa». Pertanto l’Italia, che è dislocata nel cuore del Mediterraneo, ha l’occasione preziosa di cogliere i frutti di questo enorme flusso di merci che investirà un’area del mondo strategica e di diretto interesse nazionale, uscendo dalla pericolosa situazione nella quale si trova: una portaerei della Nato a ridosso di Africa e Medioriente, in un mondo in cui mutano gli equilibri globali.

Inoltre l’Italia è il secondo Paese manifatturiero dell’UE dopo la Germania: è forte dal punto di vista industriale, scientifico e tecnologico e ha un gran numero di PMI dinamiche e innovative. Il sistema infrastrutturale necessiterebbe invece di essere potenziato ed ammodernato, ma tuttavia già oggi è costituito da direttrici ferroviarie, infrastrutture portuali e procedure efficaci di sdoganamento che permettono al paese un vantaggio competitivo. Una piena integrazione nel processo BRI permetterebbe quindi un salto di qualità. Perché se la logistica può giocare un ruolo centrale (e l’esperienza del potenziamento del Porto greco del Pireo è emblematico da questo punto di vista), è la capacità produttiva e la manifattura che può fare la differenza. L’Italia infatti può ambire a diventare non solo un hub di merci, ma soprattutto una piattaforma che riceve e trasforma prodotti, aumentandone così la catena del valore. Il che svilupperebbe appieno le potenzialità del paese, aumentandone l’interesse agli occhi di investitori stranieri ed attirando nuove tecnologie.

Infine, ma non da ultimo, Cina ed Italia rappresentano due universi culturali importanti, che hanno bisogno di conoscersi e contaminarsi. Come ha giustamente affermato il Presidente Mattarella durante la visita di Stato in Cina nel 2017, «Occorre che le “Vie della Seta” si moltiplichino e che le strade del nostro conoscersi – che non è mai abbastanza, mai sufficiente, mai concluso e completamente acquisito – si approfondiscano».

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