L’ex schiava yazida dell’Isis diventata ambasciatrice delle Nazioni Unite
Nadia Murad è stata premiata al Palazzo di Vetro di New York per il suo impegno umanitario. Si tratta della prima onorificenza assegnata a una vittima dell'Isis
Il suo volto apparentemente disteso e il suo sorriso appena accennato mentre stringe la mano del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, lasciano trasparire dal suo volto e dal suo sguardo un passato segnato dalle violenze fisiche e psicologiche subite.
Lei è Nadia Murad, ex schiava sessuale irachena di etnia yazida rapita dai miliziani dell’Isis nel 2014. Lo scorso 16 settembre, presso il Palazzo di Vetro di New York, la giovane 21enne è stata nominata “Ambasciatrice di Buona Volontà dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta degli esseri umani” conferitale dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc).
Si tratta della prima onorificenza assegnata a una vittima dei miliziani del sedicente Stato Islamico, in occasione della Giornata internazionale della Pace. Non solo. Il suo nome apparirà anche nell’elenco dei candidati al premio Nobel per la Pace.
Da diversi mesi, la giovane curda è impegnata in un’infaticabile attività per sensibilizzare la comunità internazionale sulla tragedia che ha colpito il suo popolo.
(Qui sotto Nadia Murad si commuove dopo il riconoscimento assegnatole a New York, con Ban Ki-moon)
La sua storia
Nadia aveva 19 anni quando fu catturata dai miliziani dell’Isis nel 2014. Venne sottoposta ad abusi sessuali, dopo essere stata venduta come schiava sessuale innumerevoli volte. Dopo mesi di torture fisiche e psicologiche, la giovane yazida è riuscita a fuggire e salvarsi.
Insieme alla sua famiglia, Nadia viveva nel villaggio di Sinjar, nell’Iraq nord occidentale. Aveva una vita semplice, come lei stessa ha raccontato al Time, che l’ha nominata fra le 100 persone più influenti del mondo. “Ero la più piccola di tanti fratelli, ma sono stata più fortunata di loro, perché ero riuscita ad andare a scuola, a studiare e mi stavo preparando per superare dei corsi di scuola superiore. Sognavo di fare l’insegnante di storia o di lavorare in un salone di bellezza, come estetista”.
La sua vita procedeva regolarmente tra casa e scuola, fino al 15 agosto del 2014 quando l’Isis arrivò nel suo villaggio portandosi dietro una scia di sangue e di massacri indiscriminati.
Quel giorno 700 fra uomini e donne vennero rapiti, trascinati verso la periferia del villaggio e uccisi. Tra le vittime anche sei dei suo fratelli. Ma la mattanza non era finita. I miliziani tornarono e rapirono con la forza sessanta donne, tra cui la madre di Nadia, poi massacrate perché ritenute troppo vecchie per essere schiavizzate.
“Non avevo certezza che gran parte della mia famiglia fosse stata uccisa, fino a quando non lontano da qui non sono state trovate delle fosse comuni. Diciotto persone, tra cui sei fratelli, mia madre, le mogli dei miei fratelli e i miei nipoti, sono state rinvenute lì dentro”, ha raccontato ancora Nadia.
Anche lei non è stata fortunata. Fu rapita insieme ad altre 150 ragazze di età compresa fra i 9 e i 28 anni, a Mosul, e venne rinchiusa all’interno di veri e propri centri di distribuzione, dove i miliziani dell’Isis costringevano le donne a vivere e dove queste ultime venivano usate e sfruttate come schiave sessuali.
“Ci usavano per tutto il tempo che volevano, poi una volta finito ci riportavano al centro. Io sono riuscita a fuggire, a differenza di tante altre ragazze meno fortunate. Dopo essere scappata via, ho vissuto per circa un anno all’interno di un campo profughi in Iraq, poi sono riuscita a emigrare in Germania grazie al sostegno di un’associazione che fornisce aiuto e supporto alle vittime sopravvissute dell’Isis”, ha sottolineato la giovane donna.
Grazie all’organizzazione Yazda, nel dicembre del 2015 Nadia ha trovato il coraggio di portare alla luce e all’attenzione della comunità internazionale i crimini commessi dai miliziani dell’Isis ai danni della minoranza curda degli yazidi.
Attraverso il sostegno dell’associazione, la giovane è riuscita a parlare davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con lo scopo di sensibilizzare la comunità e i media su quello che è stato definito un “genocidio” compiuto ai danni di un popolo.
“Più di 6500 tra donne e bambini sono stati costretti a vivere sotto le continue minacce degli uomini del Califfato, mentre 1200 bambini maschi sono stati strappati alle loro famiglie e addestrati come futuri jihadisti. Tra questi c’è anche mio nipote Malik”, ha raccontato tra le lacrime la giovane sopravvissuta.
(Qui sotto l’intervento di Nadia alle Nazioni Unite nel 2015)
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