Spari sui folla, uccisi almeno 18 manifestanti nelle proteste in Myanmar: è il giorno più buio
È stata la giornata più sanguinosa dopo le repressioni dei movimenti per la democrazia nel 1988 e nel 2007. E la risposta dei militari segna un giro di vite nella reazioni alle manifestazioni contro la giunta golpista che ha preso il potere nell'ex Birmania
Alla fine i militari autori del golpe in Myanmar hanno sparato sui manifestanti: dopo quattro settimane di proteste pacifiche, sono stati almeno 18 i dimostranti uccisi nella nuova giornata di manifestazioni, la più sanguinosa dal colpo di Stato del primo febbraio. E la sanguinosa risposta dei militari segna un giro di vite nella reazioni alle manifestazioni contro la giunta golpista che ha preso il potere nell’ex Birmania.
Il bilancio, forse neppure quello reale, dopo ore in cui si succedevano convulse le cifre dei morti, è stato dato da una portavoce dell’Alto commissariato Onu per i Diritti umani, che poi ha condannato “con forza” l’escalation della violenza e ha chiesto ai militari di “fermare immediatamente l’uso della forza contro i manifestanti pacifici“.
È stata la giornata più sanguinosa dopo le repressioni dei movimenti per la democrazia nel 1988 e nel 2007. Secondo l’Onu, ci sono state vittime perché le forze dell’ordine hanno sparato a Yangon, l’ex capitale e la città più popolosa del Paese, ma anche a Dawei, Mandalay, Bago, Pokokku e Myeik. Nella città meridionale di Dawei, la polizia ha aperto il fuoco su una folla di centinaia di persone. La polizia ha anche usato proiettili di gomma, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i manifestanti, che hanno eretto barricate per fermare gli attacchi. “La Birmania è un campo di battaglia“, ha detto il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon. Lo riporta Agi.
E continua a non esserci alcuna notizia sulle condizioni dell’ex leader de facto del Paese, Aung San Suu Kyi, che sarà portata in tribunale domani per rispondere delle accuse di possesso illecito di walkie talkie e violazione delle norme anti Covid nelle manifestazioni pubbliche.
Da Bruxelles, il capo della diplomazia, Josep Borrell, che ha annunciato misure urgenti. “La violenza non darà legittimità al rovesciamento illegale del governo democraticamente eletto. Le autorità militari devono mettere fine immediatamente all’uso della forza contro i civili”. Ieri l’inviato speciale all’Onu del Myanmar, Kyaw Moe Tun, leale a Suu Kyi, è stato licenziato dal regime dopo che aveva lanciato un appello per chiedere alla comunità internazionale di agire.
In una sessione speciale dell’Assemblea Generale dell’Onu, Kyaw Moe Tun venerdì ha chiesto con voce concitata “la fine del colpo di stato militare” e “una forte azione della comunità internazionale” per “porre fine all’oppressione di persone innocenti e restituire il potere” al popolo. Il diplomatico ha invitato i suoi “fratelli e sorelle” a continuare la lotta e, con il gesto a tre dita dei manifestanti, ha lanciato un appello perché “questa rivoluzione deve vincere”. Una portavoce delle Nazioni Unite, Stephane Dujarric, ha reso noto di non aver ricevuto comunicazione della rimozione del diplomatico, che rimarrebbe per ora rappresentante del Myanmar.
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