Reportage TPI – La grande fuga dei giovani dalla guerra civile in Myanmar
La guerra civile birmana è considerata il più violento conflitto in corso nel mondo. Negli ultimi tre anni più di 1,5 milioni di cittadini hanno lasciato il Paese. Tra loro molti giovani che vogliono scampare alla leva obbligatoria. Queste sono le loro storie
«Quando piove a Bangkok mi precipito in strada a prendere la pioggia. È la cosa che mi ricorda di più il mio Paese, il Myanmar…». Dedan ha 18 anni, lo incontro a Bangkok, dove vive da quattro mesi da “studente”, ufficialmente, anche se la sua reale condizione sarebbe quella di rifugiato.
Dedan è un ragazzo di Yangon, scappato dalla guerra civile che sta devastando il suo Paese dal colpo di Stato del primo febbraio 2021, quando le forze armate hanno rovesciato il Governo democratico della neo-eletta consigliere di Stato Aung San Suu Kyi.
Da quel giorno il Myanmar è entrato in una violentissima spirale di guerra civile, poco raccontata in Europa e nel mondo, ma i cui effetti sono visibili nelle scelte obbligate di vita di milioni di cittadini che oggi si trovano a dover decidere tra l’arruolamento obbligatorio in una guerra che non condividono, o la fuga dal Paese.
Dedan è fuggito poche settimane prima che il Governo militare emanasse una nuova legge che rende obbligatoria la leva di due anni per tutti i cittadini, dai 18 ai 35 anni per gli uomini e dai 18 ai 27 anni per le donne. Leva, in un Paese in conflitto, vuol dire andare in guerra, e andare in guerra, in Myanmar, vuol dire combattere contro i tuoi amici o i tuoi parenti, poiché il conflitto in questi territori di giungla e montagna, non si combatte contro un invasore esterno, si combatte tra popoli che vivono nello stesso Paese, divisi da storie, etnie, religioni, e politica.
Nessuno ne parla
Dal colpo di Stato del 2021, il Governo Militare ha perso oltre il 60% del controllo del territorio, in particolare nei territori controllati dalle minoranze etniche, che abbondano in tutta l’Asia e in particolare in Myanmar.
Questo risultato, considerato positivo per la resistenza, si accompagna a oltre 51.700 vittime, di cui circa 7.000 civili, 22.000 prigionieri e oltre un milione e mezzo di sfollati, conseguenza di attacchi aerei, battaglie sul campo, omicidi mirati, attacchi incendiari, con fionde e macchinari. Per dare un termine di paragone, a Gaza si stimano poco meno di 40.000 morti.
Secondo l’Acled (Armed Conflict Location and Event Data Project), organizzazione specializzata nell’analisi dei conflitti nel mondo, quello del Myanmar è il conflitto più violento in corso. E nonostante questo, poco raccontato dai media.
«Penso che questo sia dovuto principalmente a causa di priorità geopolitiche diverse, soprattutto rispetto a ciò che sta accadendo con Russia e Ucraina e Israele e Gaza», racconta Kitsune, nome d’arte di una 27enne di Yangon, operatrice umanitaria, fuggita in Thailandia con una valigia e il suo gatto, per evitare la leva obbligatoria in un conflitto in cui non crede.
«C’è un altro motivo. Il Paese è stato protagonista di numerose questioni di diritti umani legate alla popolazione Rohingya e penso che questo lo abbia reso sfavorevole alla comunità internazionale. Infine, il conflitto etnico in Myanmar si protrae da oltre 60 anni, rendendo la situazione più complicata e complessa, il che potrebbe costituire una sfida per i leader mondiali».
La questione etnica è dominante, da sempre, nella politica del Paese. In Myanmar vivono 135 gruppi etnici riconosciuti. I principali sono suddivisi in sette regioni, con lingue, religioni e origini diverse: sono i Karen, Shan, Mon, Chin, Kachin, Rakhine e Karenni.
In seguito al colpo di Stato, le minoranze, precedentemente in conflitto aperto, hanno trovato un terreno comune nella loro opposizione ai vertici politici militari. Così si è sviluppata, nel corso del tempo, una resistenza armata, tenace e ben organizzata, fatta di ospedali segreti, con sale operatorie sotterranee e medici volontari, donazioni segrete e comunicazioni che arrivano a destinazione anche grazie a Starlink, il sistema satellitare offerto da Elon Musk, in contrasto con i blocchi al web imposti dal Governo militare.
Russia, Cina e Scam Center
Mentre latitano Stati Uniti e mondo occidentale, negli ambienti politici del Sud-Est Asiatico è dato per certo che l’appoggio di Russia e Cina all’attuale Governo militare sia specchio di una volontà precisa di destabilizzare i tentativi democratici del Paese.
Fare affari tra dittature è più semplice, e se il partner commerciale è anch’esso impegnato in una guerra, è ancora più semplice. Lo dimostrano i numeri. Stime Onu parlano di oltre un miliardo di dollari di prodotti militari importati dal Myanmar dall’inizio del colpo di Stato, con la Russia che ha superato la Cina diventando il principale fornitore di assistenza militare.
Secondo il think tank svedese Sipri, tra il 2021 e il 2022 la Russia ha consegnato al Myanmar 276 milioni di dollari in forniture militari, contro i 156 milioni della Cina. Le Nazioni Unite stimano che nello stesso periodo le entità commerciali russe abbiano acquistato forniture per 406 milioni di dollari, con la Cina al secondo posto con 267 milioni di dollari.
I russi combattono la guerra in Ucraina anche con armi e proiettili prodotti in Myanmar, mentre migliaia di organizzazioni criminali cinesi sfruttano il territorio e la mancanza di enforcement per operare centri di criminalità organizzata che agiscono soprattutto nell’online scamming e nel traffico di esseri umani.
Si stima che oltre 120.000 persone di diverse nazionalità, siano recluse in compound controllati dalla criminalità cinese. A uomini e donne, spesso provenienti da contesti di vulnerabilità e ingannati dalla promessa di un lavoro nel digitale, vengono sottratti i passaporti: queste persone vengono costrette a perpetrare truffe online sotto la minaccia di violenza e abusi. Un problema che la vicina Thailandia conosce bene, poiché gli ignari lavoratori vengono spesso attratti a Bangkok e poi trasportati a loro insaputa verso il Myanmar, attraversando uno dei tanti confini informali lungo il fiume Moei, che divide naturalmente i due Paesi.
Ricchi e poveri
«Abbiamo quasi finito le quote stranieri in questo palazzo. Se vuole comprare un appartamento, deve farlo subito». Ad accogliermi al cantiere dell’Embassy Wireless, palazzo extralusso con prezzi a partire da 8.000 euro al metro quadro, in costruzione nella via più prestigiosa di Bangkok è un’agente immobiliare specializzata in appartamenti di lusso.
A Bangkok gli investimenti stranieri in immobili non possono superare l’equivalente del 49% dell’intero condominio. La legge ha l’obiettivo di evitare un aumento esponenziale dei prezzi e di limitare le disparità di accesso alla casa per i thailandesi.
È raro che un progetto immobiliare locale raggiunga la quota massima di investimenti stranieri. Sono cittadini del Myanmar ad avere acquistato quasi tutte le quote dedicate agli stranieri. Migliaia di imprenditori, commercianti, membri del Governo Militare e dell’opposizione del Myanmar stanno da tempo investendo i propri capitali nella più sicura e stabile Thailandia, al riparo dall’inflazione locale (oltre il 20%) e dall’instabilità politica.
C’è anche chi ricicla denaro, ottenuto grazie alla diffusa corruzione, un fenomeno che la Thailandia e altri Paesi provano a contrastare da tempo imponendo controlli sui fondi in arrivo da Paesi esteri, ma questo non basta: sono sempre più frequenti i casi di documenti bancari falsi. Ad accorgersene, spesso all’ultimo minuto, sono gli ufficiali del Catasto, all’atto di vendita.
Nonostante le difficoltà, nel 2024, il numero di appartamenti in nuova costruzione venduti a cittadini del Myanmar in Thailandia è aumentato del 415,8% rispetto al 2023.
Queste fughe di capitali non sono piaciute, però, al Governo militare, già in seria difficoltà finanziaria, che prima ha annunciato una tassa sui redditi dei cittadini del Myanmar all’estero, minacciando il mancato rinnovo dei passaporti, e poi ha annunciato il carcere per chi acquista appartamenti all’estero o apre conti bancari senza autorizzazione.
Non mancano altre soluzioni: viaggi con “spalloni” da un confine all’altro, le agenzie di cambio illegali, le fatturazioni false tra aziende.
Terribile ricatto
Nemmeno la fuga rappresenta la soluzione più scontata per salvare la propria vita. Chi lascia il Myanmar si trova di fronte ad un terribile ricatto: ogni giorno i militari incendiano le abitazioni dei fuggitivi.
«Abbiamo convinto mia madre, di 80 anni, a lasciare Myitkyina, nel nord, e trasferirsi con i miei fratelli a Tachileik, al confine con la Thailandia, ma lei non voleva che la sua casa venisse incendiata. Non avevamo più cibo, acqua, internet, medicine».
Il trasferimento nella zona più vicina alla Thailandia è una scelta obbligata per molti cittadini del Myanmar, spesso una tappa prima di varcare il confine.
Triangolo d’Oro
Nelle foreste del sud-est del Myanmar, tra templi buddisti e cascate, si trova il Triangolo d’Oro, regione situata al confine tra Thailandia, Laos e Myanmar, un territorio controllato da organizzazioni criminali, snodo per il contrabbando di armi, persone, droga.
Il conflitto ha aumentato le complessità di questa regione, già da tempo oggetto di diversi (e non sempre efficaci) tentativi di controllo. Qui opera la Mae Fah Luang Foundation, fondazione Thailandese sotto patrocinio Reale. La fondazione progetta iniziative di sviluppo economico locale, con l’obiettivo di riconvertire le attività delle minoranze etniche al confine. Dalla coltivazione di eroina, a quella di cacao. Dallo spaccio di metanfetamine alla creazione di tessuti da vendere negli Stati Uniti o in Giappone.
A sostenere la fondazione, c’è un italiano, Sandro Calvani, senior advisor, ex diplomatico, ed ex direttore di vari organi delle Nazioni Unite e della Caritas: «Gli scontri più gravi – racconta a TPI – si sono verificati più a Sud, oltre la frontiera di fronte alla provincia di Chiang Mai. Ovviamente le minoranze etniche hanno messo a disposizione ogni aiuto possibile per i loro concittadini che vivono in Myanmar. È stato necessario rafforzare la vigilanza contro il dilagare dei traffici di anfetamine, che tipicamente sono direttamente proporzionali alle variazioni della guerra civile perché il narcotraffico è spesso la risposta più immediata all’impoverimento causato dal conflitto».
Studenti e operai
Minh e Lala sono nati a Yangon, hanno lavorato in compagnie internazionali e hanno un’esperienza che farebbe gola a qualsiasi grande tech company internazionale. Oggi combattono la povertà e la precarietà tra la Thailandia e il Myanmar, cercando di risparmiare abbastanza per poter restare a Bangkok.
«Si ritiene che le persone privilegiate possano sempre trovare una via d’uscita. Ma io non voglio prosperare e vivere in una società ingiusta», dice Minh a TPI.
Anche Lala è scappata dal Paese, dopo che si era reso impraticabile continuare a pagare i militari del quartiere per mantenere la propria sicurezza. «Mio padre – spiega – è stato attaccato da un gruppo di ex prigionieri, rilasciato dalla giunta con lo scopo di terrorizzare i cittadini e destabilizzare ulteriormente. Gli hanno rubato la moto e lo hanno picchiato portandolo quasi alla morte. I vicini e le ambulanze avevano troppa paura di aiutarlo. Questo incidente dimostra come la paura e la sfiducia pervadono la nostra società, rendendo le persone esitanti ad assistere persino un uomo che sta per morire per strada».
Oltre ai giovani professionisti e studenti, decine di migliaia di operai cercano la propria libertà a Bangkok, a partire dai cantieri immobiliari dove anche i ricchi militari fedeli al regime acquistano i propri appartamenti rifugio.
Indossano la divisa fornita dall’azienda, un casco, e polvere gialla sul visto: è la thanaka, ricavata dalla corteccia e utilizzata come protezione solare e rinfrescante. Gli operai più “fortunati” hanno a disposizione degli appartamenti, monolocali in cui dormono 4-5 persone, ma molti devono accontentarsi di accampamenti di fortuna, spesso realizzati accanto ai cantieri.
Futuro
Mentre un’intera generazione di cittadini del Myanmar rischia di rimanere analfabeta a causa della chiusura delle scuole e dell’abbandono scolastico, una discreta comunità di ex politici e intellettuali del Paese, rifugiati principalmente a Chiang Mai, nel nord della Thailandia, lavora in modo informale per trovare una strada di negoziati.
«In diversi modi non ufficiali e del tutto informali sono attive diverse parti interessate: dal nuovo Ministro degli Esteri della Thailandia, le imprese private, diverse organizzazioni della società civile e le autorità religiose e rappresentanze diplomatiche», conclude Sandro Calvani. «Non sono a conoscenza di alcuna iniziativa formale multilaterale e multi-stakeholders simile a quella che si è vista a Ginevra per consultare e concordare una strategia per ottenere un cessate il fuoco o negoziati di pace in Ucraina. Nel caso del Myanmar non è emersa finora una strategia alternativa a quella cui siamo abituati da anni, cioè l’eterna attesa che le parti in conflitto riconoscano lo stallo in cui si trovano».
E fino a quando non lo riconosceranno, le vite e le libertà di milioni di cittadini del Myanmar, saranno ostaggio di questa guerra.