Un 17enne richiedente asilo afghano si è suicidato in Svezia
Mustafa Ansari era in Svezia da nove mesi ma non aveva ancora ottenuto un colloquio per inoltrare domanda d'asilo, si è ucciso nel centro di accoglienza che lo ospitava
Mustafa Ansari, 17 anni, era arrivato da solo fino in Svezia il 24 luglio del 2015. Era il più grande dei figli di una coppia afghana residente nella provincia iraniana dello Shiraz. La madre era una casalinga e il padre faceva la guardia in una fabbrica.
Nell’estate del 2015, Mustafa era partito verso nord, in un mese aveva attraversato la Turchia, la Grecia e poi su verso la Germania. Alla fine era approdato in Svezia, come altri 23mila minori afghani non accompagnati.
Il ragazzo era un doppio rifugiato, apparteneva all’etnia hazara, una comunità di origine mongola e lingua persiana. Perseguitati in Afghanistan, scacciati dai Taliban sunniti, molti di loro erano fuggiti in Iran ed è lì che Mustafa era cresciuto insieme ad altre centinaia di migliaia di profughi hazara.
Una popolazione che, riferiscono gli attivisti, affronta continui episodi di discriminazione e la minaccia della deportazione. Poi le forze armate iraniane hanno cominciato a reclutare gli hazara per andare a combattere in Siria e Mustafa aveva deciso di partire.
Suo padre non voleva che andasse, ma lui era deciso e non si è lasciato convincere a restare. “Era il più brillante dei miei figli, gli interessavano i gadget elettronici e voleva andare in Svezia a studiare tecnologia mobile”, ha raccontato il padre Ali.
I ragazzi come Mustafa che si assumono tali rischi sono gravati da grandi responsabilità. Sanno che le loro famiglie hanno fatto grandi sacrifici per pagargli un viaggio in cui ripongono tutte le loro speranze e Mustafa era consapevole che, una volta raggiunta la Svezia, la sua famiglia avrebbe potuto raggiungerlo.
Al suo arrivo, senza documenti, dichiarò di avere 16 anni e le autorità svedesi gli assegnarono come data di nascita quella di registrazione: il 24 luglio. Mustafa sapeva che da quel momento avrebbe dovuto aspettare solo due anni prima di essere ricongiunto con la sua famiglia.
(Il centro di accoglienza di Svangsta, in Svezia, dove risiedeva Mustafa Ansari. Credit: Alistair Scrutton. L’articolo prosegue sotto l’immagine)
Il ragazzo fu assegnato a Svangsta, una piccola comunità di 1.700 persone sulla riva di un fiume nel sud del paese, dove si trova un centro per richiedenti asilo gestito dal governo, un edificio in mattoni a due piani dove Mustafa viveva con altri 20 ragazzi provenienti dall’Afghanistan, dalla Siria, dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Marocco e dall’Iran.
Aveva una stanza tutta per sé con un grande armadio, un frigorifero, un tavolo con quattro sedie e un bagno adiacente. Una stanza proprio accanto alla cucina. Sulle pareti della sua camera aveva messo decine di post-it con i suoi pensieri e le parole svedesi che imparava. Ascoltava la musica a tutto volume e siccome gli piaceva cucinare, preparava riso e pollo per tutti.
Aveva idee religiose e politiche conservatrici e non era a suo agio davanti al personale femminile. Era malinconico e aveva difficoltà a dormire. A volte chiedeva a qualcuno di cantargli una ninnananna. Tre volte a settimana gli era concesso di parlare a tu per tu con lo staff del centro e usava quel tempo per esercitasi con lo svedese o discutere temi sociali, voleva capire meglio il paese che sarebbe diventato la sua casa.
Andava a scuola a mezz’ora di autobus dal centro, era lì che frequentava un corso intensivo di svedese. Poi andava in piscina a prendere lezioni di nuoto e pregava spesso nella moschea del paese.
Due mesi dopo il suo arrivo in Svezia, Mustafa avrebbe dovuto avere il primo colloquio con l’agenzia per l’Immigrazione, ma i funzionari rimandarono l’appuntamento senza fissare una nuova data.
E nel frattempo la situazione in Svezia stava cambiando, l’afflusso di tanti migranti cominciava a pesare sul sistema di accoglienza e sugli svedesi e gli attacchi terroristici in Europa non facevano che peggiorare una situazione già tesa, così le autorità svedesi cominciarono a inasprire le proprie politiche sui richiedenti asilo e i tempi delle domande si dilatavano.
La primavera successiva Mustafa aveva ormai adottato abitudini più europee, si lasciava persino abbracciare dallo staff femminile, ma l’agenzia per l’Immigrazione non si era ancora fatta viva e il ragazzo cominciava a scoraggiarsi.
Passava sempre più tempo nella sua stanza, non andava a scuola e aveva perso peso. Il 9 marzo, dopo una nottata e una mattinata particolarmente agitate, Mustafa venne portato al pronto soccorso psichiatrico a un’ora di distanza dal centro di accoglienza.
Gli vennero prescritti dei medicinali e l’11 marzo il medico decretò che aveva avuto un episodio maniacale, uno dei sintomi del bipolarismo. Divenne chiaro che Mustafa era diventato un soggetto a rischio. A rischio di esplodere in comportamenti violenti o di farsi del male.
La sua famiglia non sapeva delle sue condizioni mentali, tutto ciò di cui erano a conoscenza era che Mustafa aveva un raffreddore e soffriva di mal di testa. Il ragazzo raccontava alla madre che non voleva prendere le medicine perché gli davano capogiro e lo facevano sentire assonnato, diceva che però era costretto ad assumerle.
Circa un mese dopo, Mustafa aveva finalmente ottenuto un colloquio con l’agenzia per l’Immigrazione, era il 6 aprile. Lui e il suo tutore si misero in viaggio per Vaxjo ma quando arrivarono scoprirono che il loro consulente legale era stato spedito per sbaglio a Malmo e doveva essere tutto rimandato, di nuovo. Fissarono un nuovo appuntamento, per il 3 maggio.
Il giorno dopo appariva avvilito e scoraggiato, tanto da doversi recare di nuovo al consultorio psichiatrico. Quel giorno scrisse un sms al tuo tutore in cui diceva di non sentirsi bene. Lo ripeté più volte.
Qualche giorno dopo, i suoi amici del centro lo invitarono a guardare insieme una partita di Champions, Mustafa amava il calcio. Si unì a loro, ma poi tornò nella sua camera, per prendere i suoi medicinali.
Fu quella la notte in cui si uccise.
Lo trovarono il mattino dopo, le lenzuola annodate talmente strette al suo collo da doverle tagliare.
Nove mesi di attesa, nove mesi di incertezze e frustrazione, nove mesi che si erano trasformati in depressione, avevano ucciso le sue speranze di un futuro migliore e hanno ucciso lui, una delle tante vittime della cosiddetta crisi dei migranti, non perché morto lungo il viaggio come migliaia di altre persone in fuga da guerra, persecuzioni e povertà, ma perché strangolato da un sistema che a un certo punto si è inceppato.
Malgrado le ottime credenziali svedesi in materia di accoglienza e salvaguardia dei diritti umani, il suicidio di Mustafa Ansari, 17 anni, getta una lunga ombra sull’intero sistema.
(La tomba di Mustafa Ansari, in Svezia. Credit: Fabian Bimmer)