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Il muro di Gaza che separa l’Egitto e Israele dalla Striscia

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

È alto dai 6 ai 10 metri, costruito in cemento armato e filo spinato. Presidiato, da un lato, dai militari egiziani e, dall’altro, dalle truppe israeliane che hanno invaso Rafah. Sembra Berlino ai tempi della Guerra fredda. Ma è la barriera che da 17 anni isola il territorio costiero palestinese

Il 20 settembre del 2020 il mare di Gaza era calmo, la visibilità perfetta e il sole batteva come ad agosto sulle spiagge. Nei giorni precedenti il mare molto mosso aveva fermato i pescatori palestinesi, che con barche di fortuna, rattoppate non potevano rischiare di salpare in condizioni avverse.

Bisognava aspettare il giorno giusto e muoversi con cautela in una lingua di mare di qualche chilometro a largo. Non oltre. Più in là ormeggiano le navi da guerra israeliane che bloccano la libera navigazione e l’entrata di aiuti, rifornimenti, cibo e acqua in un embargo che dura ormai dal 2007.

Come in mare così in terra
Ma le navi israeliane che stringono in una morsa le acque di Gaza non sono le sole che garantiscono l’embargo. Nel pattugliamento è impegnata anche la Marina militare egiziana che scrupolosamente scandaglia le acque e garantisce che i pescatori palestinesi non superino il confine marittimo con l’Egitto. Yaser e Hasan Zaghzu quel 20 settembre salpano con la loro barca, acquistata qualche settimana prima, per raccogliere il pesce della giornata da rivendere nel pomeriggio al mercato di Gaza City. Durante la navigazione entrano di qualche centinaio di metri in acque egiziane, in un punto dove le acque sono più profonde, all’altezza della spiaggia di Rafah, dal lato egiziano del confine, dove a differenza di Gaza i pesci abbondano.

È un attimo e i soldati egiziani aprono il fuoco sull’imbarcazione. Hasan muore sul colpo mentre Yaser finisce in acqua ferito tra i rottami della sua barca distrutta. Recuperati dalla Marina del Cairo, Yaser e la salma del fratello vengono espulsi in giornata al di là del muro divisorio, dentro la Striscia di Gaza.  

Oltre al muro marittimo infatti, esiste un altro muro, fatto di cemento armato, alto sei metri con filo spinato, presidiato da militari egiziani. È la barriera ermetica che separa la Striscia di Gaza dall’Egitto: Il muro egiziano.

Un recinto “smart”
Un primo muro venne costruito nel 2007 dalle autorità del Cairo, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni politiche palestinesi e il successivo golpe a Gaza. Il primo reticolato si estendeva dal confine di Rafah verso sud fino al valico israeliano di Kerem Shalom. La seconda parte del muro, quella settentrionale, venne costruita a partire dal gennaio 2008 partendo dal valico di Rafah fino al mare a nord, all’altezza della località palestinese di Tel al-Sultan per finire fino a Qarya al-Suwaydya per una estensione totale di 12 chilometri lungo tutto il confine egiziano con la Striscia. Il presidente Hosni Mubarak diede il via libera alla costruzione del muro di separazione nel quadro di un accordo più ampio con le autorità israeliane per imporre uno stretto embargo a Gaza in modo da esercitare pressione su Hamas per costringerlo a lasciare il governo della Striscia al partito Fatah, presente in Cisgiordania, le cui forze di sicurezza controllano il territorio in stretta collaborazione con Israele. Nel 2019 anche le autorità di Tel Aviv iniziarono imponenti lavori di costruzione di reticolati e muri che separano Gaza da Israele, e che terminarono nel 2022.
È il muro “smart”: dotato di sensori, radar e telecamere si estende per 65 chilometri intorno a tutta la Striscia e arriva a coprire fino a 10 metri di altezza e sei nel sottosuolo. È lo stesso che verrà superato il 7 ottobre durante gli attentati di Hamas contro gli insediamenti israeliani.

Dall’inizio dell’embargo di Gaza nel 2007 tutto ciò che entra nella Striscia di Gaza attraverso i valichi di Rafah e Kerem Shalom è centellinato: generi di prima necessità, benzina, materiali edilizi. Secondo Francesca Albanese, giurista e relatrice per le Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, le autorità israeliane avrebbero calcolato un fabbisogno calorico minimo specifico per ogni palestinese in base al sesso e all’età all’interno di una operazione senza precedenti di schedatura della popolazione di Gaza. La griglia dei generi di prima necessità che entrano nella Striscia sarebbe funzionale alla stretta sopravvivenza ed è in base a questo calcolo che si aprono o chiudono i valichi in collaborazione col Cairo. 

Il “termometro” del Cairo
Ma il muro di separazione egiziano con la Striscia di Gaza non è sempre stato così impenetrabile. Mubarak che adottava una politica pragmatica, volta cioè a mantenere un rapporto privilegiato con Israele ma al contempo ad avere un ruolo centrale nella mediazione con Hamas, spesso permetteva la costruzione clandestina di tunnel sotto al muro tra l’Egitto e Gaza dai quali passavano cibo, generi di prima necessità ma anche armi.

L’allagamento dei tunnel da parte delle autorità egiziane o il lasciare che venissero costruiti rappresentava in tempo reale lo stato delle relazioni diplomatiche, il termometro dei rapporti tra il Cairo e Tel Aviv e al contempo tra il governo egiziano e Hamas.

L’apice dello sviluppo dei tunnel si raggiunse tra il 2012 e il 2013 con il governo di Mohamed Morsi, mentre dal 2013 gran parte di queste gallerie sono state allagate con l’arrivo al potere del generale Abdel Fattah al-Sisi che ha introdotto misure restrittive senza precedenti nel tentativo di isolare Gaza.

Con lo scoppio del conflitto in corso a Gaza poi, nel febbraio 2024 il governo egiziano ha costruito un secondo muro, parallelo e più interno per rendere la fuga ancora più complessa e potenzialmente fatale, aggiungendo torri di controllo, telecamere e una maggiore sorveglianza armata via terra e mare. 

In mano ai trafficanti
All’ombra del muro, tra il 2012 e il 2014, si era formata una fitta rete di trafficanti: militari, contrabbandieri, piccoli criminali che in cambio di soldi permettevano il passaggio attraverso i tunnel di merci, cibo, armi e droga. Tra questi il principale boss è Ibrahim al-Organi, diventato poi un imprenditore vicino al generale Al-Sisi, che per anni ha gestito i traffici sotto il muro, spartendo mazzette con le guardie di confine.

Con l’allagamento dei tunnel da parte delle autorità egiziane, i traffici sono risaliti in superficie, concentrandosi sul valico di Rafah, un business milionario per la Organi Group che gestisce gli accessi per conto del governo egiziano, tassando anche gli aiuti umanitari in entrata a Gaza. Una linea retta divide la città di Rafah: la parte occidentale è sotto il territorio egiziano mentre quella orientale cade all’interno della Striscia di Gaza.  

Nel 2014, per scoraggiare la creazione di nuovi tunnel, il generale Al-Sisi ordinò l’abbattimento di migliaia di abitazioni nella parte occidentale di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza. Da allora, secondo Human Rights Watch, le forze di sicurezza e l’esercito egiziani hanno distrutto sistematicamente migliaia di abitazioni private, negozi e scuole senza una giustificazione plausibile, sfollando con la forza centinaia di famiglie e arrestando chi si opponeva alle misure di sequestro e abbattimento degli stabili. Secondo l’ong si tratterebbe di una chiara violazione dei diritti umani. L’ipotesi è che per chiudere ermeticamente da fuori la Striscia, il governo del Cairo abbia voluto creare uno zona cuscinetto, svuotata dai suoi abitanti per poter controllare al meglio le zone di confine dove i militari hanno costruito check-point, basi e postazioni di osservazione utili al monitoraggio di ogni movimento sospetto.

Prigione a cielo aperto
Dal 2007 ad oggi non ci sono dati certi su quante persone abbiano perso la vita nel tentativo di attraversare il muro terrestre e marittimo egiziano per fuggire da Gaza. Secondo il ministero della Salute palestinese, dal 2014 ad oggi, sarebbero circa un centinaio le vittime tra pescatori e rifugiati che via mare e via terra hanno tentato di oltrepassare la frontiera con l’Egitto.

Dallo scoppio della guerra, la pressione al confine è aumentata, con incidenti ormai all’ordine del giorno. Nel maggio scorso, i militari egiziani hanno intercettato uno sfollato che era riuscito a superare il muro di separazione. Catturato, è stato picchiato e spinto al di là della barriera di cemento. Un mese prima, ad aprile, un giovane palestinese accampato a Rafah e con problemi mentali ha superato il confine via mare, a nuoto. Dopo aver raggiunto le spiagge egiziane, nudo e in stato di shock è stato freddato dalle guardie di confine che, dopo averlo ucciso, hanno gettato il cadavere in un sacco e lo hanno lanciato oltre il valico, all’interno della Striscia di Gaza. Dall’inizio della guerra, lungo tutto il confine, complici i costanti bombardamenti israeliani, si è creata una enorme tendopoli che accoglie più di un milione di sfollati in ripari di fortuna all’ombra del muro, tra macerie, spazzatura, fame. Alcuni resistono, altri cercano di fuggire verso l’Egitto, nella speranza di farcela.

Tutti i Territori palestinesi sono stati investiti dal 2000 ad oggi da una colata di cemento ininterrotta che ha rinchiuso milioni di persone dentro muri e reticolati condannandoli alla povertà, alla fame, alla droga e alla morte. In Cisgiordania il muro israeliano spacca in due Gerusalemme creando apartheid con politiche discriminatorie che opprimono i cittadini palestinesi a favore di quelli israeliani: dividendoli in cittadini di serie A e serie B.

A Gaza circa 2 milioni di persone vivono sotto l’ombra di alti muri in attesa di morire di stenti o sotto i bombardamenti israeliani. Fuggire verso l’Egitto invece significa andare incontro a morte certa sotto il fuoco dei militari. 

Il popolo palestinese, che vive dentro una prigione a cielo aperto, anela la libertà. La libertà di muoversi senza paura di un drone o un check-point. La libertà di lavorare, di studiare, di giocare. La libertà di vivere, non più all’ombra di un muro, ma alla luce del sole. Chissà se un giorno ci sarà mai un 10 novembre 1989 anche per i palestinesi.

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