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La storia di Victor Grossman, il soldato americano che disertò per la Ddr

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La storia di Victor Grossman, il soldato americano che disertò per la Ddr

Victor Grossman è nato nel 1928 a New York, oggi ha 91 anni e vive nella vecchia Berlino est, sulla Karl Marx Allee a pochi metri dallo storico Cafè Moskau. È uno dei pochissimi soldati ebrei statunitensi ad aver disertato la U.S Army per fuggire nella Repubblica democratica tedesca della Germania Est, e come lui ci tiene a raccontare è anche “uno dei pochi uomini al mondo ancora in vita ad aver conseguito una laurea ad Harvard e alla Karl Marx Universitaet della Ddr”. Per tutta la vita ha fatto il giornalista.

Il suo vero nome è Stephen Wechsler, ma a Berlino tutti lo hanno sempre conosciuto come Victor. Si iscrive al partito comunista nel 1945 quando frequenta ancora l’Università di Harvard. “Era una delle poche organizzazioni a combattere il razzismo e ad essere contraria alla bomba atomica, per questo mi sono iscritto”, racconta. In quegli anni inizia a leggere Marx e si innamora della musica dei grandi cantautori folk: Peter Seeger, Guthrie e Leadbelly sono solo alcuni dei suoi preferiti. Appena laureato va a lavorare come operaio in due fabbriche a Buffalo e prende parte ai movimenti dei lavoratori che in quel periodo erano sotto attacco.

Nel 1947 il senatore J.R McCarthy sale alla presidenza della commissione d’inchiesta voluta dal Congresso statunitense per dare la caccia ai sovversivi “antiamericani”: il partito comunista è nella lista nera. Tre anni dopo il giovane Stephen viene chiamato alla leva ma prima di potersi arruolare gli viene sottoposto un foglio da firmare. “Dovevo dichiarare di non aver mai preso parte ad alcuna organizzazione sovversiva. Lessi la lista delle organizzazioni proibite, facevo parte di almeno sette o otto di quelle elencate”. Se avesse detto la verità avrebbe certamente rischiato un processo, così mente. “Ebbi paura e firmai, sperando che non si accorgessero mai della verità”.

Viene spedito con le forze dell’esercito americano nella Germania Ovest occupata dagli statunitensi. Ma nel ’52 arriva una lettera dal Pentagono in cui gli viene chiesto di presentarsi al Tribunale militare entro 6 giorni. Si erano accorti che era un comunista. A quel punto decide di scappare.

Come è arrivato nella Germania Est?

Due giorni prima della scadenza scappai in Austria attraversando il Danubio a nuoto. Arrivai nella zona austriaca ancora occupata dai sovietici e chiesi rifugio. Mi tennero in una cella per due settimane per capire cosa fare di me. Per fortuna avevo in tasca il documento del Pentagono con tutte le organizzazioni sovversive comuniste e socialiste di cui avevo fatto parte e quindi mi credettero. Fui mandato nella Germania Est, a Potsdam dove spedivano tutti gli stranieri. C’erano moltissimi giovani come me che venivano dal Nord Africa e dagli Stati Uniti. Mi diedero il nome di Victor Grossman. Lavorai lì in una fabbrica per un breve periodo e poi mi fu permesso di andare a Lipsia a studiare.

Che cosa ha studiato?

Giornalismo. Quando dissi che mi volevo iscrivere all’Università mi fecero un test per capire se sapevo il tedesco e se avevo già un’educazione. Volevano capire che tipo ero politicamente. Poi mi chiesero cosa volevo studiare. Io dissi: “Quello che c’è”. E mi dissero che c’era posto nella classe di giornalismo, pensai che era interessante e accettai.

Come funzionava l’Università nella Ddr? Che ricordi ne ha?

Ricordo che eravamo una classe di 25 ragazzi e facevamo tutto insieme. Vivevamo inseme, studiavamo e mangiavamo in gruppo e frequentavamo gli stessi corsi, qui conobbi la mia compagna di vita. Era una buona Università ma c’erano anche professori che non amavo. Il professore di “marxismo” era troppo dogmatico. Non mi piaceva molto il suo corso, non c’era dibattito, dovevamo solo ascoltare quello che ci veniva detto e non avevamo molta libertà di discussione, il che non rendeva le lezioni particolarmente affascinanti. Era piuttosto noioso. All’Università non ho imparato molto sul giornalismo però ho avuto dei bravissimi insegnanti di Storia della Germania e di Letteratura tedesca, erano persone di grande cultura che avevano combattuto contro il nazismo e che erano stati per questo a lungo imprigionati.

Si iscrisse subito al Sed (il Partito di Unità Socialista di Germania che governava la Germania Est)?

No, non mi sono mai iscritto al Sed.

Perché?

Ci provai, ma mi piaceva la musica folk, ascoltavo moltissimo la radio americana e ai membri del Sed non era permesso ascoltare le radio capitaliste occidentali. Quando me lo dissero pensai: “Magari  mi iscrivo un altro giorno”. E poi c’era un altro problema. Bisognava avere un comportamento molto codificato e io volevo avere la possibilità di pensare in maniera indipendente. Questo per i dirigenti della sezione giovanile della Sed non era comprensibile. Così decisi di supportarlo dall’esterno. Ero straniero e non mi fecero troppe pressioni perché entrassi a farne parte.

Quali sono gli aspetti di quegli anni che ricorda positivamente?

Apprezzavo molto il fatto che nella Germania Est ci fosse stato un profondo processo di denazificazione. A chi era stato nazista veniva tolta la possibilità di avere posizioni di potere, furono estromessi dalla scuola, e rimossi dalla dirigenza delle aziende e dei servizi. Molti se ne andarono a Ovest. Chi rimase fu messo a lavorare ma non poteva avere incarichi di responsabilità e gli era proibito sostenere pubblicamente le proprie idee. Nella scuola quasi tutti gli insegnanti erano nazisti e questo creò anche di problemi perché vennero a mancare professori. Allora reclutavano anche i giovani alle prime armi, un mio amico che sapeva giocare un po’ a calcio diventò di botto insegnante di football e di geografia. In secondo luogo li ho supportati perché furono in grado di cacciare via tutte le grandi multinazionali, furono sequestrate le loro proprietà e dovettero andarsene a Ovest. La Ddr aveva creato un sistema dove nessuno aveva paura di perdere il lavoro. La disoccupazione ad esempio era illegale. Nessuno aveva paura di rimanere senza casa, era illegale sfrattare qualcuno se non gli era stata prima affidata un’altra abitazione. Gli asili nido erano gratis e anche la scuola e l’educazione. La proprietà era di tutti. Non esistevano piccoli gruppi di miliardari che guadagnavano moltissimo denaro dal lavoro di migliaia di lavoratori, questo fu il loro più grande risultato.

E che cos’è che invece non le piaceva nella Ddr? Che cos’ha sbagliato secondo lei la dirigenza del Partito?

La leadership del Partito non imparò mai a parlare con la gente. Non sapevano come discutere con le persone per spiegare qual era il loro progetto. Per questo molti non li capirono. Vedevano le comodità dell’Ovest e volevano goderne. I politici della Ddr non impararono mai ad usare i media. Non riuscivano a mettere in piedi degli show televisivi attraenti o a scrivere in maniera coinvolgente. Erano poco affascinanti. Sottovalutare questo aspetto fu un grave errore. Non hanno mai capito come arrivare al cuore delle persone, come divertire. In un certo senso non erano dei bravi giornalisti. L’Ovest invece era abilissimo nel persuadere, sapeva comunicare molto bene con i media i vantaggi del benessere.

Ha mai avuto problemi nel suo lavoro di giornalista?

Non quando scrivevo. Io dovevo scrivere degli Stati Uniti e nel farlo non ebbi particolari problemi. Ebbi qualche rogna nel parlare pubblicamente, perché criticavo alcuni aspetti dell’azione di governo, soprattutto la sua modalità di comunicazione. Ad alcuni questo non piacque, in alcuni luoghi non mi chiamarono più a parlare.

Ha mai avuto rapporti con la Stasi?

Sono entrato in contatto con loro tre volte, quando l’ambasciata statunitense aprì negli anni ’70 mi chiesero di diventare amico delle persone che erano lì, ma non ci andai. Un’altra volta mi chiesero se potevo metterli in contatto con persone negli Stati uniti, ma non erano interessati né agli anziani né a chi era già comunista, e io conoscevo solo persone che rientravano in queste due categorie. E poi in maniera indiretta perché un mio amico del college ne faceva parte e credeva nel fatto che fosse un sistema di autodifesa dello Stato.

Che cosa accadde la sera del 9 novembre del 1989 e perché cadde quel muro secondo lei?

Io vidi tutto in tv. Non uscii di casa, avevo paura che al confine Ovest si ricordassero che ero un disertore e tornassero a cercarmi. Ho guardato tutto a distanza provando sentimenti contraddittori, capivo che le persone erano felici di viaggiare e vedere i loro cari ma ero anche triste perché sapevo che era la fine della Ddr. Io credevo ancora in un mondo in cui tutti potessero avere le stesse possibilità. La Germania Est era in crisi ma avrebbe potuto continuare a sopravvivere economicamente. Alla richiesta di un’unione completa non si arrivò subito. Si chiedevano maggiori libertà di espressione e di movimento. Il fatto che la Germania sia crollata non dimostra che quel sistema fosse completamente sbagliato e morente. Mostra solo il fatto che ha perso una battaglia. Era più debole e l’Ovest era più forte. In guerra non sempre vince il migliore, molto spesso vince il più forte.

Che cosa accade dopo?

L’intera Germania dell’Est in due anni fu distrutta. Quasi tutte le fabbriche furono liquidate, chiuse o rilevate a basso prezzo da qualche proprietario dell’Ovest. Milioni di persone persero il lavoro, molti giovani se ne andarono ad Ovest, alcune compagnie tornarono. I più vecchi invece rimasero e spesso non trovarono lavoro per anni. Le case espropriate dovettero essere restituite con lunghe cause legali.

Che cos’è cambiato oggi?

C’è una parte della popolazione che sta molto meglio, una parte che vive in condizioni economiche non troppo diverse da prima e una grande parte della popolazione che invece sta molto peggio, soprattutto a causa dell’insicurezza lavorativa. Questo oggi è il più grande problema della Germania Est. Molte persone sono insoddisfatte e ci sono forze politiche di destra neo-naziste che stanno cercando di convogliare questa insoddisfazione contro i migranti, trasformando la rabbia per le difficili condizioni economiche in odio. La sinistra deve tornare per strada dove ci sono le persone. Deve imparare a comunicare ed essere in grado di spiegare che il colpevole non è chi ha un diverso colore della pelle, ma il sistema economico che ci mette gli uni contro gli altri.

Ritiene che ci sia maggiore libertà oggi?

Non sono sicuro che quella che viviamo oggi sia la libertà. Prendiamo la stampa ad esempio. I giornali dell’Est furono tutti comprati da grandi aziende dell’Ovest e questo non ha portato a una completa libertà di espressione. Su quei giornali alcune cose si possono dire e altre no e continuano a esserci persone che non hanno la possibilità di avere una voce o un microfono. Capisco chi festeggia il 9 novembre, capisco alcune delle motivazioni per cui sono felici, ma io non riesco ad esserlo. Ho visto quello che è accaduto dopo, ricordo molto bene tutta la storia e oggi ho paura per il futuro.

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