Msf, mezzo secolo di azione in 73 scatti: “Dalla malaria agli uragani, testimoniamo le conseguenze della crisi climatica”
Il genocidio in Ruanda del 1994 raccontato dalle immagini di Gilles Peres, fotografo della Magnum; un bambino siriano uscito dal mar Egeo dopo aver tentato di imparare a nuotare, ripreso dall’obiettivo di Enri Canaj durante la crisi umanitaria del campo profughi di Samos, in Grecia, esacerbata dall’insorgere del Covid-19 a luglio del 2020.
E ancora: le rappresaglie contro il gruppo etnico Rohingya, in Bangladesh, nell’obiettivo di Moises Saman. Sono solo alcuni dei 73 scatti di 15 fotografi Magnum che ripercorrono i 50 anni di storia di Medici Senza Frontiere, la Ong Medico umanitaria fondata il 22 dicembre 1971 da un gruppo di medici e giornalisti francesi, che in mezzo secolo ha prestato soccorso alle vittime di conflitti in tutto il mondo, testimoniando crisi umanitarie altrimenti dimenticate, dall’Afghanistan al Libano, dal massacro di Srebrenica al terremoto di Haiti fino alle attuali rotte migratorie in Messico, Grecia e nel mar Mediterraneo, contribuendo a portarle sotto i riflettori di governi e organizzazioni internazionali, “guardando oltre” ogni ostacolo e indifferenza.
“Guardare oltre” è il titolo della mostra che il museo Maxxi di Roma ospita dal 6 al 14 novembre 2021, dopo l’inaugurazione al festival Cortona on the move ad agosto, dedicata alle crisi che trovano sempre meno spazio sui media occidentali. “In 50 anni l’azione umanitaria è sicuramente cambiata: pur rimanendo fedeli al mandato di base, è cambiato il rapporto con la tecnologia. È più facile aumentare il pacchetto tecnologico e le capacità diagnostiche e tecnologiche sul campo”, spiega a TPI Claudia Lodesani, infettivologa e presidente di Msf dal 2018 dopo 16 anni di lavoro sul campo.
“In Giordania facciamo ricostruzione plastica di terzo livello, protesi con stampanti in 3D. Ad Haiti c’è un centro per ustionati che fa ricostruzione e chirurgia plastica”. Eppure l’attenzione verso le emergenze è diminuita. “C’è sempre meno spazio per parlare di quello che succede al di fuori dell’Italia e dell’Europa”, spiega Lodesani. Una tendenza che l’esplosione dell’epidemia di Covid-19 ha contribuito ad accelerare, perché l’Occidente si è ritrovato ad affrontare questioni, problemi, bollettini quotidiani e lutti considerati fino a febbraio 2020 materiale da “Terzo Mondo”, dimenticando quasi definitivamente le emergenze sanitarie che affliggono costantemente questi Paesi, i quali però hanno meno risorse a disposizione per combatterle.
Le dinamiche di espansione e contenimento del virus, osserva l’infettivologa entrata a far parte di Msf nel 2002, sono state molto diverse da quelle testimoniate normalmente nei luoghi più remoti dalla Ong. “I nostri sono sistemi sanitari più solidi, perché sono più ricchi e hanno un numero di risorse umane adeguato. È chiaro che anche da una crisi come quella del 2020 in Europa, grazie al sistema sanitario che ha migliore capacità di reazione, ci si riprende più velocemente: di questo la gente non si rende conto. Hai poi più accesso alle cure in termini tecnologici, mentre in molti paesi non puoi essere intubato. Hai i vaccini e la sperimentazione dei farmaci”, spiega. Al netto della tragedia umana che è costata la vita a milioni di persone in tutto il mondo “non ci rendiamo conto che siamo privilegiati”.
Percorrendo lo spazio espositivo dedicato alla mostra all’interno del museo progettato da Zaha Hadid, una diapositiva bianca, vuota, rappresenta l’epidemia di Ebola in Rdc esplosa per la prima volta nel 2014. Bianca per “evidenziare la tensione del momento”. “Il momento scelto da Msf per raccontare l’epidemia di Ebola in questa cronologia non è stato coperto dai foto-giornalisti Magnum”, si legge nella didascalia. “Si trattava di una fase in cui fotoreporter e redattori internazionali si interrogavano per la prima volta sulla pericolosità sconosciuta del virus, ma in cui MSF ha messo in piedi il più grande intervento mai realizzato per arginare l’epidemia in 6 paesi in Africa occidentale”.
“Non posso starmene a guardare la mia gente che muore. Ma io e i miei colleghi qui presenti non possiamo combattere l’Ebola da soli. La comunità internazionale deve aiutarci. Non abbiamo la capacità di rispondere a questa crisi da soli. Se la comunità internazionale non si mobilita, scompariremo. Abbiamo bisogno del vostro aiuto. E ne abbiamo bisogno subito”, dichiarava nel 2014 Jackson Naimah, assistente medico di MSF in Liberia, nel suo discorso pronunciato di fronte alle Nazioni Unite.
Il connubio tra intervento umanitario e responsabilità di denuncia celebrato nella mostra rappresenta il cuore dell’azione di Msf. Che – in tempi di disinformazione e fake news, in cui spesso la scienza viene mal raccontata anche da chi dovrebbe fare informazione – ricorda qual è la vera utilità del giornalismo in contesti di emergenza: arrivare dove non tutti possono e “guardare oltre”. “C’è la tendenza a fidarsi, non verificare le informazioni, essere meno curiosi – osserva l’infettivologa – C’è sempre più difficoltà a essere vicini alle crisi. Sicuramente è più difficile documentarle. Ma si è anche diventati dipendenti dall’opinione pubblica: è difficile parlare del Tigray perché non interessa e se non interessa non ti leggono. Del resto è un circolo vizioso: se ne parli meno non interessa, se non interessa ne parli meno. Di fatto il risultato è che nessuno sa cosa succede aldilà dei confini del proprio stato”.
L’emergenza che sembra invece aver scalato l’agenda mediatica e politica degli Stati è quella climatica, emersa negli ultimi anni come una delle più urgenti da affrontare, ma che gli staff di Msf testimoniano e raccontano da tempo. “Noi vediamo già le conseguenze della crisi climatica. Vediamo aumentare i casi di malaria e di dengue, vediamo inondazioni, uragani, e questo è quello che stiamo raccontando. Da almeno 10 anni stiamo cercando di diminuire il nostro impatto, con tutte le difficoltà, perché non è facile portare le tecnologie in posti in cui è difficile arrivare”. Ma dove non può arrivare un pannello solare può arrivare lo sguardo. Pronto a testimoniare.