Così il Qatar si è “comprato” i Mondiali per spacciarsi come Paese aperto e moderno
La persecuzione dell'omosessualità, i morti nei cantieri, la schiavitù abolita solo di recente. E l'ombra della corruzione. Ecco la gigantesca farsa della Coppa del Mondo 2022
Così il Qatar si è “comprato” i Mondiali per spacciarsi come Paese aperto e moderno
L’uomo più potente della storia del calcio mondiale è stato Joao Havelange, presidente della Fifa per un quarto di secolo, dal 1974 al 1998. Era un omone dallo sguardo freddo e impenetrabile. Figlio di un commerciante d’armi belga emigrato in Brasile, da giovane aveva partecipato come nuotatore alle Olimpiadi di Berlino del 1936, i Giochi della vergogna strumentalizzati dalla propaganda nazista.
Havelange fu tra i primissimi a capire che ventidue uomini che corrono dietro a un pallone hanno il potere di smuovere le masse. E di macinare montagne di denaro. Da massimo dirigente del football, si spese molto per fare dello sport più amato al mondo anche un’industria dell’intrattenimento, o – se preferite – una macchina da soldi.
Ma il «monarca del calcio» – come lo chiamava lo scrittore Eduardo Galeano – fu anche un prezioso alleato per alcuni fra i più sanguinari dittatori del Novecento.
Nel 1973, ad esempio, curò la vendita di 80mila granate al presidente boliviano Hugo Banzer. E cinque anni dopo, il primo giugno 1978, era seduto in tribuna d’onore allo stadio Monumental di Buenos Aires al fianco del generale Jorge Videla per l’inaugurazione della Coppa del Mondo organizzata dall’Argentina.
«A pochi passi da lì – scrisse Galeano nel libro cult “Splendori e miserie del gioco del calcio” – era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e sterminio della Scuola di Meccanica dell’Esercito. E, alcuni chilometri più in là, gli aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare».
I Mondiali di Qatar non sono dunque i primi disputati su suolo nemico della democrazia. Prima dell’era Havelange, li aveva ospitati nel 1934 l’Italia fascista di Benito Mussolini. E appena quattro anni fa le partite si giocarono nella Russia di Vladimir Putin, considerato oggi da molti – almeno qui in Occidente – il “nemico pubblico numero uno”.
Ma la rassegna che sta andando in scena a Doha rappresenta comunque qualcosa di mai visto prima. E non solo perché si tiene su campi in erba allestiti in mezzo al deserto quando nel resto dell’emisfero settentrionale è quasi inverno.
C’è un dato che parla da solo. Finora il Paese che aveva speso di più per l’organizzazione di una Coppa del Mondo era stato il Brasile nel 2014: 15 miliardi di dollari; ebbene, il Qatar ne ha investiti 220, di miliardi, superando così di quattordici volte quel record.
È evidente allora che per l’Emirato di Doha è in ballo molto più di un semplice evento sportivo: questa è una vetrina di cruciale importanza geopolitica ed economica per mostrarsi al resto del mondo come una nazione ricca, moderna, efficiente e soprattutto aperta alle culture più diverse. Una gigantesca farsa.
Mondiali Qatar, i sospetti di corruzione
Sull’assegnazione del torneo da parte della Fifa, avvenuta dodici anni fa, quando alla guida della Federcalcio mondiale c’era Sepp Blatter (erede naturale di Havelange), pesa l’ombra della corruzione.
Nel 2014 lo stesso massimo organo di governo del calcio incaricò un ex giudice americano, Michael Garcia, di indagare: Garcia non ha trovato prove che inchiodino penalmente il Qatar, però ha scoperto che diversi membri del comitato esecutivo della Fifa – quello che assegna i Mondiali – avevano ricevuto da rappresentanti dell’Emirato regalie (viaggi in aereo, soggiorni in alberghi di lusso) e in alcuni casi persino denaro liquido.
È tutt’ora in corso, invece, un’inchiesta della magistratura francese che parte da un misterioso pranzo all’Eliseo avvenuto il 23 novembre 2010, dieci giorni prima dell’assegnazione della Coppa del Mondo.
Al tavolo c’erano l’allora presidente transalpino Nicolas Sarkozy, l’allora presidente della Uefa Michel Platini e alti funzionari di Doha: secondo quanto testimoniato da Blatter, Platini lo chiamò subito dopo l’incontro riferendogli che Sarkozy «gli aveva raccomandato di votare per il Qatar».
Un’ipotesi investigativa è che, in cambio dell’appoggio sul fronte Mondiali, gli emiratini si sarebbero impegnati a fare acquisti in Francia: dalla squadra del Paris Saint Germain agli aerei militari Rafale.
Mondiali Qatar, i morti sul lavoro e diritti negati
È così che un Paese grande quanto la metà dell’Emilia-Romagna e con appena 2,3 milioni di abitanti, di cui appena il 15% (330mila persone) ha la cittadinanza, si è aggiudicato la più prestigiosa manifestazione sportiva esistente dopo le Olimpiadi.
Oggi il Qatar è riuscito nell’obiettivo che aveva di attrarre su di sé gli occhi del mondo. Ciò ha implicato qualche positivo passo in avanti, come l’abolizione della “kefala”, forma moderna di schiavitù in virtù della quale i lavoratori stranieri non potevano lasciare il Paese senza il permesso del proprio datore di lavoro.
Ma la corsa per farsi trovare pronti all’appuntamento con la kermesse calcistica ha lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue.
Secondo il Guardian, più di 6.700 lavoratori migranti hanno perso la vita in Qatar fra 2011 e 2020: sebbene non sia chiaro quanti di essi siano morti nei cantieri relativi ai Mondiali (stadi, ma anche strade, hotel e un aeroporto semi-nuovo), in questi anni ong come Amnesy International hanno denunciato a più riprese le pessime condizioni di lavoro per i migranti impiegati nell’espansione qatariota (per le autorità locali, sono “solo” 38 le vittime collegabili alla costruzione degli stadi).
A rimetterci la pelle, operai indiani, pakistani, nepalesi, cingalesi, bengalesi: manovalanza costretta a vivere ammassata in ghetti poco ospitali alla periferia dei grattacieli. Perché a Doha la modernità è solo nel cemento e nelle Ferrari che sfrecciano, ma per molte cose sembra di stare ancora nel Medioevo: la sodomia è punita con la reclusione fino a tre anni e l’ambasciatore dei Mondiali, Khalid Salman, ha recentemente definito l’omosessualità una «malattia mentale».
Una gaffe che ha irritato il comitato organizzatore: la Coppa del Mondo, infatti, serve proprio a rifare l’immagine del Qatar. Una sorta di re-brandig nazionale.
Fa parte della strategia di soft power portata avanti dall’emiro Tamim Al Thani, al potere dal 2013, e in precedenza da suo padre Hamad, che nel 1995 aveva deposto il padre Khalifa.
Una strategia che passa dallo sport (oltre ai Mondiali, il già citato acquisto del Paris Saint Germain, dove militano tre fra i migliori calciatori del pianeta: Messi, Mbappè, Neymar) e dai media (nel 1996 Doha lanciò Al Jazeera, il primo canale satellitare arabo). E che prospera grazie ai ricchi proventi dal commercio di gas naturale, di cui il Paese detiene la terza più grande riserva mondiale.
Il Qatar è uscito rafforzato, inoltre, dall’accordo raggiunto a inizio 2021 per la fine dell’embargo imposto da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto, che nel nel 2017 avevano rotto le relazioni con Doha accusandola di connivenze con gruppi terroristici come Hamas, un isolamento che ha avvicinato il Qatar a Iran e Turchia.
Intanto, sui campi da gioco dei Mondiali la Fifa ha vietato ai capitani delle nazionali di indossare al braccio la fascia arcobaleno “One Love”, a sostegno dei diritti Lgbtq+. I governanti del calcio hanno deciso che chi la vestirà sarà ammonito, e i calciatori – su ordine delle rispettive federazioni – si sono subito adeguati. I diritti umani non valgono nemmeno un cartellino giallo.
LEGGI ANCHE: Dalla sicurezza dei lavoratori al mancato rispetto dei diritti: il costo umano dei Mondiali in Qatar in numeri