Mladic atto finale: il Boia dei Balcani condannato dopo 26 anni di latitanza, omertà e negazionismi
È finita la grande attesa per il verdetto finale del processo contro l’ex generale Ratko Mladić, comandante dell’esercito serbo bosniaco durante la guerra nella ex Jugoslavia. Oggi, martedì 8 giugno 2021, il tribunale dell’Aja, sede del Meccanismo Residuale per i Tribunali Penali Internazionali (IRMCT), che dal 2018 è succeduto al Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia (TPIJ), ha confermato il verdetto della sentenza d’appello, emessa il 22 novembre 2017.
In particolare, la Corte ha condannato l’imputato all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, compresi sterminio, deportazione e dislocazione forzata di popolazione, commessi tra il 1992 e il 1995 in altre sei municipalità della Bosnia, della diffusione del terrore attraverso tecniche belliche nella città di Sarajevo e della presa in ostaggio del personale dell’ONU.
La società civile bosniaca attendeva giustizia da oramai trent’anni e la sua parte più rappresentativa è costituita dall’associazione delle Madri di Srebrenica, ossia le madri e mogli degli 8.000 uomini bosniaci musulmani che sono stati trucidati sistematicamente nell’eccidio avvenuto nell’enclave.
Queste donne hanno contribuito in maniera fondamentale alla ricostruzione degli eventi occorsi tra l’11 e il 17 luglio 1995, spesso scontrandosi con le resistenze di chi considerava le vittime semplicemente disperse. Soprattutto grazie alla loro collaborazione la Commissione Internazionale delle Persone Scomparse (ICMP) è riuscita a risalire all’identità di almeno 7.000 resti ritrovati nelle fosse comuni dell’area di Potocari e Srebrenica, attraverso il confronto con i campioni di sangue messi a disposizione dai parenti delle vittime.
Come per ogni grado del processo al generale, le madri si sono riunte presso lo Srebrenica Memorial Centre per seguire l’ultimo capitolo di questa battaglia legale, sebbene molte tra loro siano trapassate prima di poter ottenere giustizia.
Nonostante il TPIJ avesse spiccato i primi mandati di accusa nei confronti di Mladić tra luglio e novembre del 1995, contestando, tra gli altri, il reato di genocidio, il generale è comparso per la prima volta davanti ai giudici dell’Aja soltanto il 4 giugno del 2011. La sua latitanza è durata ben 16 anni ed è stata possibile soltanto grazie alla collaborazione delle istituzioni dello stato serbo, presso cui aveva trovato rifugio a partire dal 1996.
In particolare, fino al 2001 Mladić girava indisturbato per Belgrado grazie alla protezione del presidente della Serbia, Slobodan Milošević, e fu persino avvistato allo stadio durante un amichevole tra Serbia e Cina. Dopo la fine del regime di Milošević e la sua estradizione all’Aja, la latitanza di Mladić divenne sempre più difficile, sebbene molti apparati dello Stato serbo, come una parte di quello militare e dei servizi segreti, continuarono a lavorare per impedirne la cattura.
La rete di persone disposte a collaborare per favorirne la clandestinità, però, andò restringendosi gradualmente, finché egli dovette contare soprattutto sui suoi familiari. Quando fu catturato, la mattina del 26 maggio 2011, era ospite di un cugino presso Lazarevo, un villaggio a pochi chilometri da Belgrado. Solo alcuni tra coloro che lo hanno protetto sono stati processati, di cui la maggior parte assolti. Sulle carte di tali processi la Serbia ha imposto il segreto di Stato.
La sentenza di oggi, dunque, segna la fine di una lunga e travagliata vicenda, anche se rimangono ancora alcune questioni aperte. Nella seduta d’appello del 25 e 26 agosto 2020 la difesa aveva chiesto l’assoluzione totale dell’imputato; l’accusa, invece, non soltanto avrebbe voluto la conferma del giudizio di primo grado, ma sperava che i crimini avvenuti in altre sei municipalità oltre a quella di Srebrenica venissero inclusi entro la fattispecie di genocidio e non solo come crimini contro l’umanità o pulizia etnica.
Da un lato, ci si aspettava che il giudizio di primo grado venisse confermato, come era già accaduto al processo contro Radovan Karadžić, presidente dell’autoproclamata Republika Srpska e considerato principale architetto del genocidio di Srebrenica, che si era visto, inoltre, commutare la pena di 40 anni di carcere in ergastolo proprio nella sentenza d’appello del marzo 2019.
Tuttavia, dopo la ricusazione dei giudici che avevano determinato la condanna in primo grado su richiesta degli avvocati di Mladić, avvenuta nel marzo 2020, molti analisti, come Emir Suljagić, e soprattutto i parenti delle vittime del genocidio temevano che la sentenza di appello potesse minare l’intero impianto accusatorio.
La sostituzione aveva infatti portato alla presidenza della camera d’appello la giudice Prisca Matimba Nyambe, che in un processo precedente, quello nei confronti dell’ufficiale dell’esercito serbo bosniaco Zdravko Tolimir, aveva messo in discussione la definizione di genocidio rispetto ai fatti occorsi a Srebrenica e alla relativa responsabilità di quest’ultimo.
Ancora oggi nei Balcani esiste un vero e proprio movimento di negazionisti del genocidio di Srebrenica, ma anche semplicemente sacche di popolazione che vedono nei criminali di guerra dei veri e propri eroi. Nel 2020 il Balkan Investigation Reporting Network (BIRN) ha stabilito che esistono innumerevoli strade, placche commemorative, murales, dedicati a criminali di guerra, come lo studentato di Pale, vicino Sarajevo, intitolato a Karadžić, oppure il murales di Kalinovik che ritrae Mladić, accompagnato dalla scritta: Città di eroi.