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“Miseria, mura pericolanti e acqua imbevibile”: il mondo dei palestinesi dimenticati in Libano

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Tre giorni nei campi profughi insieme ai rifugiati palestinesi, dove miseria e infiltrazioni di acqua e rabbia non fanno che alimentare la collera degli esclusi dalla società. Il reportage dal Libano pubblicato sull'ultimo numero del settimanale TPI

Sul lungomare di Sidone, a pochi metri dal castello che i crociati costruirono su un isolotto che ospitava un tempio fenicio, decine di pescatori lanciano le lenze nel Mediterraneo orientale. Per molti la pesca non è più solo un hobby. È il modo per rimediare un pasto in un Paese dilaniato dalla povertà. L’esplosione nel porto di Beirut del 2020 ha peggiorato le condizioni economiche già deficitarie per via della guerra civile del 1975, dei bombardamenti israeliani del 2006 e della crisi economica del 2019.

Il Libano è uno dei Paesi più piccoli al mondo. L’Abruzzo è più grande. Gli abitanti sono poco più di 6,5 milioni, compresi oltre 400mila rifugiati palestinesi. A pochi chilometri dal lungomare di Sidone c’è il campo profughi più grande del Libano. Si chiama Ein al-Hilweh ed è un mondo a parte. Qui i primi profughi palestinesi, costretti a lasciare le loro terre, arrivarono nel 1948. Da 73 anni sperano di tornare a casa. I primi arrivati sono ormai morti e la maggior parte degli attuali abitanti non ha visto altro che il campo. Prigionieri senza aver commesso alcun reato.

Oggi ai palestinesi si sono aggiunti i profughi siriani fuggiti dall’ennesima guerra per procura combattuta per ragioni che nulla hanno a che vedere con i diritti umani. Ein al-Hilweh è diviso per zone e ognuna di esse è sotto il controllo delle organizzazioni politiche palestinesi e dei lori rispettivi bracci armati. Ci sono settori controllati da Al-Fatah, il partito di Abu Mazen per anni guidato da Arafat e altri governati da Hamas. Esercito e polizia libanese qui non entrano. In cambio, davanti alle moschee, uomini armati di kalashnikov sono responsabili della sicurezza.

Sebbene Ein al-Hilweh sia il campo più popoloso del Libano la povertà non è paragonabile a quella di Burj Albarajne, che si trova tra l’aeroporto e il centro storico di Beirut. È difficile trovare al mondo un altro luogo con una carenza tale di diritti. La maggior parte degli abitanti di Burj Albarajne sono indigenti. Il sistema fognario è precario, l’acqua è salata a tal punto da essere imbevibile, il sovraffollamento è spaventoso e la rete elettrica, oltre a essere deficitaria, uccide. Sì, uccide. Ogni anno, mediamente, una dozzina di abitanti del campo muore fulminata da un filo della luce esposto che viene giù per via della pioggia o per l’assenza della minima manutenzione.

Se nel Libano di oggi è sempre più complicato accedere alle cure o procurarsi una medicina, nei campi profughi risulta spesso impossibile. Tuttavia, oltre all’intollerabile mancanza di diritti economici e sociali, è l’assenza di diritti civili e politici a dare il voltastomaco. Nel mondo occidentale si parla spesso di profughi. Politici e opinionisti si dividono su come gestire i flussi migratori, sul pagare o meno Erdogan che minaccia l’Europa con l’arma dei rifugiati, su come comportarsi con i migranti che vivono nei campi nella periferia di Atene o con quelli che tentano di attraversare il canale di Sicilia o lo stretto di Gibilterra. Ma sui profughi palestinesi non si divide nessuno perché, semplicemente, nessuno ne parla. I palestinesi sono gli spettri del mondo alla rovescia che è meglio non mostrare.

Poveri, disoccupati, profughi e senza una patria dove un giorno far ritorno o, quantomeno, sognare di farlo. Ai profughi palestinesi manca addirittura la speranza, una delle poche cose che tiene in vita. Questo in virtù dell’ipocrisia che caratterizza la politica mondiale. “Sostengo l’idea di due popoli e due Stati” dicono i farisei moderni. Salvo poi dimenticare che esistono due popoli ma non esistono due Stati. Lo Stato di Palestina in pochi hanno il coraggio di riconoscerlo e soprattutto, di fatto, non esiste.

La maggior parte delle terre lasciate dai profughi palestinesi sono oggi occupate dagli israeliani ma anche la Cisgiordania è sotto occupazione. Lo sanno i perbenisti di oggi che anche nelle enclave palestinesi continuano a crescere illegalmente le colonie israeliane? Lo sanno gli ipocriti moderni che i soldati israeliani fanno il bello e il cattivo tempo anche a Ramallah, Hebron o nei quartieri arabi di Gerusalemme? Lo sanno i sepolcri imbiancati della pseudo-sinistra che in Cisgiordania la moneta che si usa è lo shekel israeliano? Probabilmente no, ma anche se lo sapessero insisterebbero con la litania dei “due popoli e dei due Stati”, tanto per lavarsi le mani come tanti Ponzio Pilato. Se ne lavano le mani delle tragedie che necessitano risposte politicamente scorrette. Oppure si voltano dall’altra parte.

Quel che non possono fare gli abitanti di Burj Albarajne i quali, dovunque guardino, vedono miseria, mura pericolanti, infiltrazioni di acqua e di rabbia che l’ignavia dei potenti non fa altro che alimentare. La questione palestinese, che negli anni Ottanta era oggetto di dibattiti parlamentari, di consigli dei ministri o dei discorsi alla nazione del presidente della Repubblica, pare oggi non interessare più a nessuno. Non interessa l’angosciosa sopravvivenza dei profughi palestinesi perché interessa sempre meno schierarsi in un mondo governato dal conformismo.

Meglio dimenticarsi di Shatila, del suo massacro, dei suoi carnefici e delle migliaia di persone che oggi vivono in questo campo profughi tra immondizia e indigenza. Meglio convincersi del fatto che i palestinesi siano solo fantasmi. Così se dovesse capitare di legger qualcosa sull’apartheid che vivono dentro e fuori la Palestina, si potrebbe sempre pensare a una visione, una fantasticheria, un brutto sogno di cui scordarsi presto. Nulla a che vedere con l’incubo che vivono da 73 anni i palestinesi. Un incubo difficile da dimenticare perché non è mai finito.
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