“Io, migrante e Premio Nobel”: intervista ad Abdulrazak Gurnah
Negli anni Sessanta scappò dalle violenze di Zanzibar. In Inghilterra è diventato uno scrittore affermato. “Prima era più facile arrivare in Europa. Oggi le vie legali sono chiuse. Non resta che mettersi nelle mani dei trafficanti. Eppure i governi criminalizzano chi lascia la propria terra per disperazione”
La voce di Abdulrazak Gurnah è calda e ferma come deve essere quella di un professore universitario abituato a parlare con centinaia di studenti. L’unico momento in cui si incrina arriva quando gli citiamo la lettera che il giovane migrante protagonista del suo ultimo libro (“Cuore di ghiaia”, Nave di Teseo), scrive a sua madre rimasta in patria.
«Non so perché non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione di malinconia dolorosa. Perché un posto non può valere come un altro?», le chiede il protagonista divorato dalla nostalgia.
Una domanda che forse è radicata nell’anima di ognuno delle decine di migliaia di migranti che arrivano in Italia ogni anno.
Gurnah ha passato la sua vita a indagare sulla vita, le emozioni, i desideri dei migranti. Quando a metà degli anni Sessanta lui stesso ha lasciato Zanzibar, all’epoca teatro di violenze e disordini, mai avrebbe immaginato che 55 anni dopo l’Accademia di Svezia gli avrebbe consegnato il premio Nobel alla Letteratura per la «sua intransigente e profonda analisi degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati nel divario tra culture e continenti».
Tra la partenza e questo riconoscimento storico, Gurnah ha affrontato la fuga, l’arrivo in Inghilterra, le difficoltà, gli insegnamenti all’Università del Kent, e ancora, la scrittura dei suoi romanzi, che lo hanno reso famoso in tutto il mondo.
Professore, quanto è stato difficile per lei essere un migrante?
«Sono arrivato in Inghilterra quando avevo 18 anni. Nel mio Paese c’era una situazione disastrosa, ma soprattutto non potevo continuare a studiare. Ero giovane, ero ambizioso e spericolato. È normale a 18 anni. Quindi ho pensato: “Non rimarrò qui. Andrò a farmi una vita da qualche altra parte”. Ovviamente non sapevo niente. Non capivo cosa ci fosse dall’altra parte. Avevo solo quell’idea o quell’ambizione di andare a realizzarmi in qualche modo. Così sono andato in Inghilterra senza sapere molto in quel momento. Penso che a quel tempo fosse probabilmente meno difficile di quanto non sia oggi».
Perché?
«In parte, suppongo, perché non c’erano così tante persone che lo facevano e in parte perché il tipo di narrativa criminalizzante sulle persone che vogliono venire in Europa non era così diffuso come lo è ora. È stata sì una lotta come lo è per tutti, specialmente quando sei giovane, ignorante e povero. Ma sì, era possibile farsi una vita».
Che differenze vede tra lei e i migranti di oggi?
«I numeri. Il volume di persone che stanno facendo questi viaggi è aumentato e credo sia una dimostrazione della violenza che ora è più diffusa in molti posti del mondo. E poi direi la conoscenza. Queste persone oggi sanno molto di più del mondo di quanto non ne sapessi io quando sono partito. Ora c’è Internet, la tv. Questi mezzi diventano sicuramente fonti di informazione e conoscenza ma anche forme di seduzione e di attrazione».
Cosa sognano i migranti per la loro vita in Europa? E cosa trovano nella realtà?
«Molte persone sono costrette a lasciare i loro Paesi perché le loro vite, quelle della loro famiglia, il loro sostentamento, sono in pericolo. La tragedia, o le tante dimensioni tragiche, di questo processo di spostamento dalla tua casa per andare in un altro Paese per qualsiasi motivo è che ci si concentra solo sulla destinazione. Mentre ciò che le persone spesso non realizzano, fino a quando il momento non è passato, è quello che ti stai lasciando alle spalle. E quindi c’è una doppia tragedia: sei senza i mezzi per sostenerti quando arrivi ovunque tu stia andando, ma c’è anche quest’altra dimensione di aver perso così tanto senza nemmeno rendersi conto di averlo perso finché non l’hai perso. E poi, ovviamente, il viaggio di ritorno non è facile. Sia perché se la tua vita era in pericolo non puoi tornare in un posto dove sarai di nuovo a rischio. Ma anche se parti per avere una vita migliore, spesso per riuscirci impieghi anni, di lotta, di miseria. E quando raggiungi il tuo obiettivo, ecco che hai costruito un’altra vita e non è semplice dire “Ok, sono sistemato, ora ritorno”. Così molto spesso quel viaggio è tutto. È la fine del viaggio».
La maggior parte dei migranti che arrivano in Europa lo fa attraverso canali illegali e questo fa sì che sia per loro molto macchinoso entrare nella sfera della legalità e vivere una vita normale.
«Le rotte che si possono considerare legali per fare questi viaggi sono chiuse, quindi nella disperazione le persone trovano altri mezzi. Cos’altro possono fare? Cercano di salvarsi e non hanno alternative che mettersi nelle mani dei contrabbandieri. Da un lato ci sono i tentativi di controllare i movimenti di queste persone, dall’altro i trafficanti. E questo fa sì che queste persone disperate si mettano in situazioni pericolose. A questo punto i governi rispondono criminalizzando non solo i trafficanti ma anche quelle persone talmente disperate da non avere altra scelta che fare quel viaggio».
Cosa dovrebbero fare i governi europei?
«C’è una sorta di obbligo quando le persone sono a rischio. Non puoi semplicemente dire “No, muori”. C’è un dovere. È disumano rifiutarsi di aiutarli. Questo non significa che devi dire “Ok, benvenuto, ecco una casa”, ma non puoi semplicemente lasciarli annegare. Ci devono essere altri modi di affrontare la situazione, magari capire chi sono queste persone, cosa possono fare in Europa. E questo si può fare magari creando luoghi in Nord Africa per elaborare effettivamente queste richieste di viaggio in modo che le persone non debbano semplicemente rischiare la vita nel Mediterraneo o nella Manica. Ma adesso c’è solo una porta chiusa che dice “No, non vogliamo nessuno di voi”».
Pensa che le politiche sarebbero diverse se si conoscessero meglio le storie di queste persone?
«No, non credo. Penso che le persone che fanno queste leggi non siano consapevoli delle sofferenze, delle miserie e delle tragedie che colpiscono queste persone. Penso che pensino solo “Beh, se li accogliamo, perderemo voti o avremo una cattiva pubblicità”. Senza dubbio molti lo fanno per convinzione perché pensano che questo sia ciò in cui credono. Ma ho la sensazione che molti di loro lo facciano perché temono la possibile reazione di chi non è d’accordo con loro, compresi i giornali».
Una volta ha dichiarato: «Queste persone non arrivano con niente ma con la giovinezza, con energia, con potenziale». Cosa intende?
«I migranti arrivano con un desiderio, molto spesso con un talento che forse non si è ancora pienamente realizzato ma che, se nutrito, crescerà. Spesso, il più delle volte, arrivano con buona volontà. Non vengono in cattiva fede. Non vengono a dire “Andremo lì e ruberemo la loro prosperità”. Vengono perché vogliono condividere le cose buone dell’Europa. E perché no? L’Europa si spartisce felicemente da secoli le cose buone del resto del mondo».
Questa intervista fa parte del documentario “Trattamento speciale”, che sarà trasmesso il 31 luglio all’interno del programma “Il Fattore Umano”, in onda alle 23,15 su Rai3