Reportage TPI – Messico Connection: ecco com’è scoppiata la nuova guerra dei narcos
Due città assediate, un assalto armato in un carcere da tempo fuori dal controllo dello Stato, morti e feriti in strada. Così tornano gli scontri tra i cartelli rivali in un Paese sempre più militarizzato. Dove i trafficanti trovano la complicità delle istituzioni. Il reportage degli inviati di TPI a Tijuana e Ciudad Juarez
Due persone armate di fucili si avvicinano a un minibus del trasporto pubblico fermo a un semaforo, costringono il conducente e i passeggeri a scendere. Lanciano una bottiglia molotov nel veicolo e se ne vanno. Il mezzo brucia in pochi secondi, paralizzando la circolazione e, soprattutto, terrorizzando gli altri automobilisti. Questo è solo uno dei tanti racconti che arrivano da Tijuana, città messicana simbolo della frontiera con gli Stati Uniti, dove nella notte di venerdì 12 agosto sono stati incendiati una ventina di mezzi di trasporto, compresi taxi e auto private. Il pomeriggio precedente a Ciudad Juarez, al confine con il Texas, un gruppo di sicari ha sparato e ucciso per le vie della città e incendiato diversi negozi mentre un commando armato ha fatto irruzione nel carcere cittadino per prenderne il controllo. Sparando e uccidendo anche qui.
Tijuana e Ciudad Juarez sono state oggetto di due attacchi da parte della criminalità organizzata che hanno portato il governo di Andrés Manuel López Obrador a inviare oltre milleduecento militari della Guardia nazionale negli stati della Bassa California e di Chihuahua, alle porte delle città statunitensi di San Diego ed El Paso. Contestualmente, il governo Usa ha diramato un’allerta sicurezza per la propria popolazione che ha fatto infuriare il presidente messicano: «Lì ci sono sparatorie ogni giorno, ma noi non abbiamo mai avvertito i nostri concittadini di quanto siano pericolosi gli Stati Uniti».
Undici in totale le vittime dell’attacco sferrato a Ciudad Juarez l’11 agosto dal gruppo criminale dei Mexicles. Il primo obiettivo sono stati i detenuti membri degli Artistas Asesinos, braccio armato legato al Cártel de Sinaloa, all’interno del carcere numero 3 della città. Contemporaneamente, per distrarre le forze dell’ordine da quanto stava accadendo tra le mura del penitenziario e diffondere un clima di paura nella cittadinanza, un gruppo di sicari ha iniziato a girare per Ciudad Juarez dando alle fiamme diversi negozi e supermercati, soprattutto quelli della catena Oxxo, e sparando contro chiunque si trovasse davanti a loro. A farne le spese sono stati nove cittadini, tra cui i quattro membri di una troupe di Mega Radio, un’emittente locale, che stava registrando uno spot all’esterno di una pizzeria che è diventata il simbolo di questa strage: qui un gruppo di persone armate ha poi aperto il fuoco contro i clienti all’interno del locale lasciando a terra diversi feriti, il tutto ripreso dalle telecamere di sicurezza che hanno mostrato la ferocia dell’azione.
Il giorno successivo Tijuana e altri municipi della Bassa California sono stati teatro di una lunga serie di mezzi dati alle fiamme, con i conducenti costretti ad abbandonare i veicoli da uomini armati. Questa la strategia adottata dal Cártel de Jalisco Nueva Generación e da quello di Sinaloa per scatenare il panico tra i cittadini che, come ci spiega Ernesto Eslava, giornalista di Semanario Zeta, storico settimanale di Tijuana famoso per le sue inchieste su criminalità e corruzione, «hanno ormai normalizzato gli omicidi ma restano evidentemente sconvolti per auto e bus dati alle fiamme». «La narrazione dell’insicurezza dovuta esclusivamente a scontri interni ai cartelli evidentemente non regge», prosegue, «ma è utile a chi governa per provare a raccontare una storia diversa, quella di uno Stato relativamente tranquillo, in cui i turisti possono girare senza problemi, perché “i criminali si stanno uccidendo tra loro”. I numeri però raccontano altro: sono duemila gli omicidi annuali, in media, in Bassa California», i dati sembrano andare verso una conferma anche per il 2022 visto che, stando alle cifre fornite dalla Procura dello Stato, al 26 agosto sono state 1.224 le persone uccise.
In tutto sono oltre trenta le persone arrestate per i fatti avvenuti nelle zone di confine con gli Stati Uniti in diverse azioni congiunte tra polizia municipale, statale e Guardia nazionale. Questa la risposta del governo di Andrés Manuel López Obrador insieme all’invio di seicento unità della Guardia nazionale in Bassa California e altrettanti a Ciudad Juarez. La soluzione del governo, che a inizio mandato aveva dichiarato la fine della guerra al narcotraffico voluta da Felipe Calderón nel 2006 e l’inizio della politica “abrazos, no balazos”, “abbracci, non proiettili”, è tornata così a essere la militarizzazione dei territori caldi. Una decisione che ha riportato alla mente della popolazione anni di cadaveri per le strade, violenze indiscriminate dei gruppi criminali e costanti violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza. Questo, però, è quanto hanno chiesto gli imprenditori delle due città: nel caso di Ciudad Juarez hanno denunciato una perdita di cinque milioni di dollari conseguente al giovedì nero (11 agosto, ndr) a causa del crollo dei transiti frontalieri e della cancellazione del primo e dell’ultimo turno delle fabbriche per i tre giorni seguenti all’attacco; nel caso di Tijuana e della Bassa California invece hanno lamentato – nella settimana successiva agli incendi – il crollo di afflusso di visitatori, principalmente americani, con le cliniche che hanno cancellato l’ottanta per cento degli interventi prenotati da quelli che vengono chiamati i turisti della sanità, visto il basso costo rispetto agli Usa delle prestazioni ospedaliere. Il tutto con ovvie ripercussioni sul florido business degli hotel.
«Per favore condividete queste informazioni con tutte le persone che conoscete e i gruppi di cui fate parte: è arrivato un messaggio delle autorità, dalle 8 di sera nessuno deve uscire in strada, c’è un’allerta rossa per le violenze che stanno accadendo a Ciudad Juarez. Dite a tutti di non avvicinarsi agli Oxxo: hanno dato l’ordine ai propri uomini di bruciarli tutti, di rapire chiunque sia in strada. Sarà una notte tremenda, di violenze. State attenti, per favore». Questo audio è stato “inoltrato molte volte”, come avverte WhatsApp quando uno stesso messaggio viene recapitato a tante persone. A noi è stato inviato da una delle persone che abbiamo intervistato a Ciudad Juarez dieci giorni dopo il giovedì nero per farci capire il clima in città in quelle ore. Il messaggio ha iniziato a girare di smartphone in smartphone dalle 17 circa e aveva come obiettivo quello di avvertire quante più persone possibile che il traffico che si era creato, il fumo nero che si era alzato da diverse parti della città, i negozi e i supermercati chiusi avevano una causa ben precisa: Juarez era sotto attacco. Di chi, lo si scoprirà a notte inoltrata: i Mexicles, gruppo criminale considerato vicino al Cártel de Jalisco Nueva Generación. Perché, invece, è una domanda ancora senza risposta. Per Rocìo Gallegos, fondatrice e direttrice del sito indipendente La Verdad de Juarez, che abbiamo incontrato nella hall di un hotel della città dieci giorni dopo il giovedì nero, la chiave per capire l’accaduto è nel carcere.
È la dinamica dell’attacco, infatti, a chiamare in causa le stesse istituzioni: durante l’orario di visita di familiari e amici, un gruppo di una decina di persone armate, travestite da agenti di polizia, ha fatto irruzione nel penitenziario imbracciando armi di calibro pesante. Una volta entrati hanno aperto il fuoco, uccidendo due detenuti: «Come è stato possibile che un commando di sicari sia entrato indisturbato nel carcere, così come hanno raccontato testimoni oculari subito dopo l’inizio dell’attacco?». Quei testimoni erano familiari in visita nella struttura e venditori ambulanti che si trovavano subito all’esterno. «Nessuno ha opposto resistenza al loro ingresso. Per questo dobbiamo chiedere chiarezza. Chi controlla il carcere? Come si può accettare che in una città come Juarez non sia lo Stato a controllare la prigione?». Domande che La Verdad ha posto direttamente alle autorità, non ottenendo risposta.
Per Gallegos è errata anche la lettura che vuole come obiettivo del Cártel de Jalisco Nueva Generación la destabilizzazione della città: «Juarez lo è già da anni e ormai abbiamo normalizzato i morti per le strade. La città è stata dal 2008 il laboratorio di una militarizzazione del territorio come strategia di governo, una strategia fallita». Parte della popolazione sembra essere d’accordo con questa lettura, come si evince dagli striscioni appesi al monumento a Benito Juarez che chiedono “Mas educación, meno militarización”. Come ricorda Gallegos, la città conosce bene cosa significhi avere migliaia di militari per le strade: «Aumento degli omicidi, dei femminicidi, donne scomparse nel nulla, abusi contro la popolazione civile, violazione dei diritti umani. Questa è la strada sbagliata». Nel mirino in particolare l’istituzione voluta da Obrador di un nuovo corpo, la Guardia nazionale, nato nel marzo del 2019 grazie alla modifica di ben nove articoli della Costituzione e 17 legislature locali e in cui sono confluite sotto il ministero della Difesa le unità delle polizie federale, navale, militare e della marina: «Obrador ha puntato tutto su questa super-istituzione militare, annunciata nell’ultima campagna elettorale (quella del 2018, ndr) proprio qui a Juarez con l’obiettivo di contrastare i cartelli, ma il risultato è aver messo in mano ai militari anche la gestione di “compiti civili”, tanto che oggi sono proprio le forze della Guardia nazionale, per fare un esempio, a gestire la questione immigrazione».
«Stai attento. Da venerdì alle ore 22 a domenica alle 3 creeremo il caos contro il governo per liberare il nostro popolo. Siamo il Cártel de Jalisco Nueva Generación, non vogliamo colpire le brave persone, ma è meglio che non escano di casa, attaccheremo chiunque vedremo per strada in questi giorni». Questo il testo di un messaggio che ha circolato su Twitter nella serata di venerdì 12 agosto mentre a Tijuana, Tecate, Mexicali, Rosarito ed Ensenada decine di mezzi di trasporto, auto, taxi, camion, bus, venivano dati alle fiamme. Non è mai stato provato che sia stato scritto da esponenti del gruppo criminale ma è stato sufficiente a generare un clima di psicosi in città: ristoranti, bar, pub, locali hanno chiuso immediatamente, ben prima della decisione delle autorità arrivata solo il giorno successivo, di decretare una sorta di lockdown per 48 ore, quindi fino al successivo lunedì mattina. Come ci confessano molte persone intervistate una settimana dopo l’inizio degli attacchi, una cosa simile a Tijuana non si era mai vista: «Qui siamo al sicuro», ci racconta un taxista «solitamente si attaccano e si uccidono tra loro, tra gruppi criminali, ma la popolazione vive tranquillamente. Mai prima d’ora avevamo assistito ad auto incendiate nel cuore della città».
È la normalizzazione di cui ci ha parlato Ernesto Elsava e su cui punta anche Adela Navarro, direttrice di Semanario Zeta: «La gente, è tremendo dirlo, è ormai abituata a sparatorie, agguati, morti per le strade. Ma un atto simile, con decine di blocchi stradali da parte dei gruppi criminali e auto incendiate non era mai accaduto in Bassa California». A spaventare è soprattutto la difficoltà delle istituzioni nel capire il motivo: «I territori di frontiera sono già spartiti. Mexicali è del Cártel de Sinaloa, Tecate del Cártel de Jalisco Nueva Generación, Tijuana, Ensenada e Rosarito divisi tra Sinaloa, Jalisco e il gruppo locale degli Arellano Félix. L’unica lettura possibile è quella di una guerra interna ai gruppi criminali per conquistare nuovo territorio ma al tempo stesso di una volontà di esercitare pressione contro il governo. E non mi riferisco al governo statale ma a quello federale.
È un messaggio diretto al presidente, alla sua fallimentare politica degli “abrazos”: evidentemente alcune organizzazioni, e mi riferisco al Cártel de Jalisco Nueva Generación, hanno la sensazione di essere più perseguitate di altre». Per Adela Navarro, «questa tremenda serie di eventi ha a che vedere con l’incapacità, la corruzione del governo e l’impunità di cui godono i gruppi criminali». Anche secondo la direttrice di Semanario Zeta, la strategia di Obrador di mettere la sicurezza dell’intero Paese in mano alla Guardia nazionale è stata fallimentare: «Non conoscono il territorio e le sue dinamiche. In redazione, dopo la notizia dei blocchi stradali e degli incendi a Mexicali e Tecate, abbiamo subito capito che la violenza sarebbe dilagata anche a Tijuana, ma non lo ha capito la Guardia nazionale: noi giornalisti eravamo in strada, ma la Guardia nazionale no, c’erano solo i soccorsi e la polizia municipale a gestire una città paralizzata. Immaginate la situazione, parliamo di una città di quasi due milioni di persone ma relativamente piccola a livello geografico alle prese contemporaneamente con quindici incendi nelle strade». Come per l’attacco a Ciudad Juarez, anche in questo caso le domande sono tante ma per Adela Navarro ce n’è una che possiamo definire centrale: «Come è possibile che in una città come Tijuana dei gruppi criminali possano mettere in atto un simile attacco agendo in maniera pressoché indisturbata?». La spiegazione, a suo avviso, è una sola: «L’impunità che ha il narcotraffico in tutto il Paese, e particolarmente in questa regione. Possono fare semplicemente quello che vogliono».