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L’eterno conflitto tra Israele e Palestina in Medio Oriente

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

La guerra in corso va avanti da quasi 80 anni. Nessuna proposta diplomatica ha funzionato. Come mostra la catastrofe di Gaza, le ostilità sono sempre state contenute. Ma mai risolte e l’attuale governo di Tel Aviv non fa eccezione

Eliminare Hamas e liberare tutti gli ostaggi. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, il governo israeliano aveva annunciato questi come obiettivi della campagna a Gaza. Sette mesi di bombardamenti e incursioni, centinaia di migliaia di case distrutte e più di 34mila palestinesi uccisi non sembrano aver avvicinato lo Stato ebraico alla meta.

La pensano così molti esperti e addetti ai lavori, che si interrogano sulle intenzioni dello Stato ebraico per il futuro dei territori occupati. Una questione che sta contribuendo ad accentuare una spaccatura all’interno della stessa società israeliana. «Hamas è un movimento di resistenza. È un’idea», ha detto alla statunitense Abc l’ex negoziatore israeliano Daniel Levy in un’intervista dello scorso gennaio. «Quindi l’idea che possa essere sconfitto non ha mai rappresentato una lettura realistica della realtà da parte di Israele», ha proseguito Levy, oggi presidente del centro studi U.S./Middle East Project. «Israele ha perso questa guerra e ora si tratta di ridurre le sue perdite, perché temo che, dal punto di vista israeliano, la situazione non potrà che peggiorare», ha aggiunto, facendo l’esempio della «mobilitazione di massa» vista intorno alla causa palestinese «diventata quasi l’emblema dell’ingiustizia nell’ordine globale» e delle accuse del Sudafrica, che ha portato Israele di fronte alla Corte dell’Aia per genocidio.

Già a ottobre l’esperto israeliano di sicurezza Yossi Melman, insieme al giornalista Dan Raviv, aveva scritto su Time che la promessa di eliminare Hamas «non è realistica». Più di recente ha avvertito su Haaretz che come l’invasione russa dell’Ucraina, anche l’offensiva israeliana a Gaza rischia di diventare «senza fine».

Vittoria totale o morte
L’impressione, nel corso dei mesi, è stata di un contrasto sempre più evidente tra i due obiettivi della guerra. Quasi tutti gli ostaggi tornati in Israele nei primi 7 mesi dell’offensiva sono stati rilasciati durante la tregua di novembre. La probabilità invece di salvare gli ostaggi con un intervento militare è «estremamente bassa», aveva ammesso negli scorsi mesi Gadi Eisenkot, ex capo di Stato maggiore e membro del gabinetto di guerra.

Nel contesto di una campagna di bombardamenti che ha spazzato via interi quartieri e sterminato centinaia di famiglie, costringendo più del 75 per cento dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza ad abbandonare le proprie case, il pericolo per gli ostaggi è evidente. Lo dimostra quanto avvenuto lo scorso dicembre, quando tre ostaggi sono stati uccisi dal fuoco israeliano mentre sventolavano una bandiera bianca. In totale è stata liberata circa la metà delle oltre 250 persone rapite da Hamas e da altri gruppi palestinesi durante gli attentati del 7 ottobre, in cui hanno perso la vita 1.139 israeliani.

Secondo i familiari degli ostaggi, che protestano da mesi contro il governo, il prolungamento indefinito dell’operazione non è incidentale. Il motivo non sarebbe legato solo alla necessità di rispondere a Hamas e ristabilire la deterrenza, ma anche all’esigenza di Benjamin Netanyahu di rimanere alla guida di un esecutivo che non può rinunciare al sostegno della destra più estrema. «Netanyahu sta mandando a morte le nostre famiglie per ragioni politiche», hanno accusato diverse famiglie degli ostaggi in un recente comunicato, ribadendo che «finché Netanyahu sarà al potere, gli ostaggi non torneranno».

Nel corso dei mesi il primo ministro israeliano ha invocato a più riprese la «vittoria totale» contro Hamas, considerata un obiettivo «alla portata», dal quale dipendono la «sicurezza e le prospettive di pace in Medio Oriente». Ha ripetutamente affermato che non intende accettare un cessate il fuoco permanente e che anche un eventuale accordo per lo scambio degli ostaggi deve prevedere l’eliminazione di Hamas.

Problemi in paradiso
Per raggiungere l’obiettivo, secondo Netanyahu, è necessario passare per un’operazione su larga scala a Rafah, città a sud della Striscia di Gaza in cui si erano rifugiati 1,4 milioni di profughi palestinesi, il 60 per cento di tutta la popolazione del territorio, e da cui oltre un milione è fuggita nelle ultime settimane. Piani a cui si sono opposti gli Stati Uniti che per la prima volta, a inizio maggio, hanno annunciato lo stop a una spedizione di armi. Si tratta di un carico di 1.700 bombe dal peso di 500 libbre, o 226 chili, e di 1.800 ordigni da 900 chili (2.000 libbre) il cui utilizzo in aree densamente popolate, come Rafah, è già stato contestato da osservatori e attivisti. È il segnale più forte lanciato finora dall’amministrazione Biden, che dall’inizio del conflitto ha inviato a Israele più di 200 carichi di armi. 

Come motivo della decisione, Biden ha citato proprio gli attacchi contro i civili. «Come conseguenza dell’uso di quelle bombe e di altri modi in cui attaccano i centri abitati, a Gaza sono stati uccisi civili», ha sottolineato il presidente statunitense in un’intervista alla Cnn, in cui ha promesso di fermare altre spedizioni di armi se Israele dovesse lanciare un’offensiva su larga scala a Rafah. Nonostante le minacce dell’amministrazione, Israele ha comunque ordinato un allargamento «limitato» dell’operazione militare, che in pochi giorni ha spinto alla fuga un milione di palestinesi, il più grande esodo visto nella Striscia da mesi.

A pesare sull’annuncio di Biden, che dal 7 ottobre non ha mai fatto mancare il sostegno a Israele, è il divario crescente tra il leader democratico e la sua base. Il presidente statunitense, al momento sfavorito nella corsa per la rielezione, rischia di perdere uno dei bacini chiave nella vittoria contro Donald Trump nel 2020. Dopo quattro anni il vantaggio tra i più giovani si è ridotto o, secondo alcuni sondaggi, è completamente evaporato, sull’onda anche dell’ondata di proteste sui campus universitari. Il leader democratico, ribattezzato dai manifestanti “Genocide Joe”, deve recuperare terreno tra elettori Millennial e Generazione Z per sperare di tenere testa a Donald Trump a novembre.

La Casa bianca ha spiegato che le nuove restrizioni scatterebbero solo nel caso in cui Israele lanciasse operazioni su larga scala, caratterizzate cioè da «grandi forze, grandi spostamenti, molte vittime civili, molte infrastrutture danneggiate». Un tipo di intervento che si distingue invece da operazioni «più precise, più mirate e più limitate» come quella annunciata da Israele, ha dichiarato il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa bianca, John Kirby.

Non si è fatta attendere la reazione degli esponenti più estremi della destra israeliana, membri chiave del governo Netanyahu. Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ha usato l’emoji di un cuore per descrivere cosa penserebbe Hamas della decisione di Biden. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha detto che Rafah deve essere attaccata immediatamente. «Prima si fa, meglio è», ha affermato, dopo aver dichiarato a fine aprile che senza una campagna per occupare Rafah «il governo non avrebbe diritto a esistere». «Semplicemente non abbiamo scelta perché questa guerra è esistenziale e qualsiasi cosa diversa dalla vittoria completa metterà in pericolo l’esistenza dello Stato ebraico», ha detto Smotrich.

«Se dovremo rimanere soli, rimarremo soli. Se necessario, combatteremo con le unghie. Ma abbiamo molto di più che le unghie», ha detto il primo ministro israeliano, che ha ricordato l’avvicinarsi del 76° anniversario della proclamazione dell’indipendenza di Israele.

«Non avevamo armi», ha detto, ricordando la guerra del 1948. «C’è stato un embargo contro Israele, ma con grande forza di spirito, eroismo e unità abbiamo vinto».

Fantasmi del passato
Nelle parole di Netanyahu non c’è alcun cenno a una prospettiva realistica di convivenza con i palestinesi. Questo perché, secondo lo storico israeliano Tom Segev, «come Ben-Gurion e altri leader israeliani, Netanyahu non crede che il conflitto possa essere risolto». A distinguerlo dai suoi predecessori, secondo Segev, è il fatto che «si è dimostrato ancora meno abile nel gestirlo». Il giudizio è contenuto in un articolo pubblicato su Foreign Affairs, in cui lo storico ha ripercorso l’ultimo secolo di conflitti in Palestina, cercando di spiegare perché le precedenti iniziative di pace non sono riuscite a trovare una soluzione duratura. Prima ancora che nascesse lo Stato ebraico, ha scritto Segev, ai leader sionisti e alle controparti arabe era già evidente che sarebbe stato impossibile raggiungere un accordo. Secondo lo storico, autore di un’acclamata biografia di David Ben Gurion, sin dal 1919 il futuro capo del governo di Israele aveva riconosciuto che non ci sarebbe mai stata pace in Palestina.

«C’è un abisso tra noi e niente può colmare quell’abisso», le parole di Ben Gurion, il quale ha affermato a più riprese che «non c’è soluzione a questa questione». A renderla impossibile era la stessa intransigenza dei sionisti da lui guidati e la determinazione degli arabi a non rinunciare alla propria terra. 

Per tutta la sua vita, Ben Gurion, secondo Segev, è stato convinto che «il futuro degli ebrei in Palestina si sarebbe semplicemente basato sull’acquisizione di quanta più terra possibile, se non dell’intero territorio, e sul popolamento di esso con il maggior numero possibile di ebrei e il minor numero possibile di arabi».

Quando la commissione Peel, creata dal governo britannico, indicò di dividere il territorio in due Stati, con lo spostamento degli abitanti arabi presenti nell’area designata per lo Stato ebraico, nel suo diario Ben Gurion descrisse la misura come un «trasferimento forzato», sottolineando le parole «con una linea spessa».

Un presente cupo
Da questo punto di partenza, ha proseguito Segev, il conflitto può al massimo essere gestito o contenuto ma mai risolto. Come ha dimostrato la catastrofe di Gaza, Netanyahu non si è dimostrato all’altezza di questo compito.

Nel tentativo di dividere i palestinesi e di impedire loro di raggiungere l’indipendenza, l’attuale premier ha incoraggiato l’ascesa di Hamas, consentendo al Qatar di finanziare il gruppo islamista. Poi ha sostenuto iniziative senza prospettive, come il tentativo di scavalcare la questione palestinese stringendo accordi diretti con gli Stati del Golfo. Progetti appoggiati dalle amministrazioni statunitensi che hanno solo peggiorato la situazione nei territori occupati, fino alla catastrofe dello scorso ottobre.

Affrontare la crisi, secondo Segev, significa accantonare «le parole vuote sulle soluzioni per il futuro» a favore di «un’azione urgente per affrontare meglio il presente». Un’analisi che descrive un conflitto sostanzialmente irrisolvibile e «senza fine» che può solo essere gestito per evitare catastrofi come quella che si è abbattuta 7 ottobre. Ma gli equilibri non dipendono solo dalla determinazione israeliana o palestinese. Anche gli attori esterni che svolgono un ruolo di primaria importanza nel conflitto, primo tra tutti gli Stati Uniti, possono avere un peso decisivo, così come le pressioni internazionali.

Anche il celebre studioso e critico letterario palestinese Edward Said, in un suo articolo del 1999, riconosceva che il conflitto «appare irrisolvibile». Sul New York Times Said scriveva che «si tratta di una contesa per la stessa terra tra due popoli che hanno sempre creduto di averne un valido titolo e che speravano che l’altra parte col tempo si arrendesse o se ne andasse». Ma «una volta riconosciuto che palestinesi e israeliani sono qui per restare», l’unica conclusione deve essere «la necessità di una coesistenza pacifica e di un’autentica riconciliazione». Una vera pace, che secondo Said, può solo passare per il riconoscimento di «eguali diritti» per ogni cittadino sotto forma di uno Stato binazionale. La prospettiva di uno solo Stato può sembrare radicalmente inverosimile. Ma da un certo punto di vista è già qui. Come ha scritto l’analista palestinese Tareq Baconi in un editoriale sul New York Times, «un unico Stato dal fiume al mare potrebbe apparire irrealistico o una ricetta per ulteriori spargimenti di sangue. Ma è l’unico Stato che esiste nel mondo reale e non nelle fantasie dei politici». La questione «è come renderlo più giusto».

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