Medio Oriente: chi riempirà il vuoto lasciato dopo la caduta dello Stato islamico?
Una sfida estremamente ardua si profila all’orizzonte: quella della ricostruzione delle città riconquistate dalle mani dell'Isis e della loro amministrazione politica dopo anni di controllo jihadista. L'analisi Chiara Lovotti e Annalisa Perteghella per Ispi
Il 17 ottobre le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno annunciato la ripresa di Raqqa, città della Siria sulle sponde dell’Eufrate, vera e propria “capitale” dello Stato islamico. Pochi mesi prima, il 9 luglio, dopo una battaglia estenuante protrattasi per oltre nove mesi, le forze irachene avevano riconquistato Mosul, simbolo e roccaforte dell’Isis in Iraq.
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Il califfato arretra, ma la tensione nelle aree liberate rischia di rimanere alta. La disgregazione territoriale fa emergere le diverse agende degli attori locali e delle potenze regionali che per oltre tre anni lo hanno combattuto. Emblematico in questo senso il recente caso di Kirkuk. Al tempo stesso, si aprono nuovi interrogativi circa il futuro dell’organizzazione guidata da al–Baghdadi.
SIRIA: CHI GOVERNERÀ RAQQA?
Dopo la liberazione di Raqqa, dalle ceneri della ex “centrale del terrore” emerge un futuro incerto. Ora che la “grande battaglia” si è conclusa, si apre la fase di bonifica della città dai residui bellici dello Stato islamico. In questa operazione, oltre alle bandiere gialle delle Sdf sono schierate le Forze di sicurezza interna di Raqqa (Risf), addestrate dagli Stati Uniti.
Ma una sfida ancora più ardua si profila all’orizzonte: quella della ricostruzione della città e della sua amministrazione politica dopo anni di controllo jihadista. Una sfida complicata anzitutto da divergenze interne al fronte di opposizione siriano, ad esempio su quale consiglio cittadino governerà la città, se quello sostenuto dall’opposizione siriana in esilio in Turchia (Rpc) o quello appoggiato dalle forze curdo-siriane del Partito dell’unione democratica (Pyd) e dal loro braccio armato, le Unità di protezione popolare (Ypg).
Divergenze che, come rileva Eugenio Dacrema, riflettono contese territoriali e tensioni etniche mai sopite a livello locale, nonchè gli interessi geopolitici degli attori esterni che hanno scritto la storia della Siria negli ultimi anni, primi fra tutti Russia e Iran.
IRAQ: VERSO LA RESA DEI CONTI?
Il fronte anti–IS in Iraq si è caratterizzato per una elevata eterogeneità delle forze presenti sul campo, unite dall’obiettivo comune della lotta all’estremismo di Daesh e al suo progetto califfale. Nei principali teatri della guerra irachena, uscito di scena il protagonista, restano oggi molti attori a contendersi il palco, i quali sembrano portare avanti agende contrastanti – se non opposte – circa il futuro del paese.
Come sottolinea Chiara Lovotti, la disgregazione territoriale di IS obbliga dunque a mantenere alta l’attenzione nelle aree liberate in tutto il panorama siro–iracheno e in particolare in Iraq, dove dispute territoriali profonde e apparentemente inconciliabili esistono da ben prima dell’ascesa di IS: la corsa per il controllo di queste aree, infatti, rischia di generare nuove tensioni fra le molte parti in gioco.
Emblematico di questo rischio è quanto si sta verificando oggi nella regione di Kirkuk, storicamente contesa tra il Governo centrale di Baghdad e quello della regione semi–autonoma del Kurdistan (Krg), dove si affrontano le truppe curde dei peshmerga da una parte e l’esercito iracheno dall’altra, affiancato dalle milizie a maggioranza sciita delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu). Il 16 ottobre, le forze irachene hanno fatto irruzione nella città e in meno di un giorno hanno spinto i curdi alla resa.
ATTORI ESTERNI: UNA NUOVA PARTITA PER IL MEDIO ORIENTE POST–ISIS?
Dopo una prima fase, rappresentata dalle Primavere arabe e dal loro fallimento, e una seconda fase caratterizzata dall’ascesa e caduta dell’Isis nella sua dimensione territoriale, come spiega Ugo Tramballi, si apre ora la partita fra i paesi della regione per occupare il vuoto lasciato dall’organizzazione di al–Baghdadi.
Una partita che, come fa notare Annalisa Perteghella, era stata solo congelata dall’esigenza di creare un fronte compatto contro lo Stato islamico. Nonostante questa lotta comune sia stata in più occasioni un alibi da parte degli attori coinvolti per portare avanti altre agende, la fine territoriale di IS si prepara a imporre un’accelerazione agli eventi.
È lecito pensare, dunque, che il quadro non si ricomporrà in maniera armonica: da una parte si riaccendono conflittualità antiche, dall’altra il ridefinirsi delle alleanze e la corsa per il controllo dei territori riconquistati allo Stato islamico rischiano di aprirne delle nuove. Una partita, quella per il Medio Oriente post–IS, che rischia di essere complicata da un’aggravante: il veleno del settarismo che in questi anni ha impregnato il discorso politico e religioso.
STATO ISLAMICO: È DAVVERO FINITA?
La contrazione territoriale vissuta dallo Stato Islamico – una sequenza iniziata già nel 2015 e che negli scorsi giorni è culminata con la liberazione di Raqqa in Siria e delle ultime sacche della resistenza jihadista in Iraq – pone molti interrogativi circa il futuro stesso dell’organizzazione guidata da al–Baghdadi. Di fatto queste perdite territoriali, pur avendo un forte impatto simbolico (andando cioè a minare l’utopia del “califfato”) non implicano necessariamente una scomparsa della minaccia.
Da un lato, IS continuerà a proiettare la propria ideologia, servendosi, inter alia, della sfera virtuale. Dall’altro lato, sul piano operativo, potrebbe verificarsi un “ritorno al passato”: IS potrebbe trasformarsi, abbandonando il modello proto-statuale e divenendo un movimento insurrezionale, con impiego di tattiche terroristiche e di guerriglia sul modello di quanto avveniva prima del 2014. Non mancano poi i rischi relativi ai militanti ancora presenti, tra cui vi è un numero significativo di foreign fighters.
Parte di questi combattenti potrebbe, infatti, dislocarsi in altre zone di guerra (ad esempio Libia o Yemen), andando a infoltire le fila dei gruppi jihadisti locali; altri potrebbero tornare nei propri paesi di provenienza. Anche nel lungo periodo sussistono varie criticità, come evidenziato da Arturo Varvelli e Silvia Carenzi: al di là delle concrete azioni militari, occorre riflettere sulle cause profonde che hanno consentito l’ascesa e il consolidamento dei gruppi jihadisti. Se queste cause di fondo continueranno a resistere, il jihadismo continuerà a proliferare, seppur tra fasi di ripiegamento e nuovi revival.