Malala denuncia il silenzio di Aung San Suu Kyi sulla persecuzione dei Rohingya
La giovane premio Nobel pakistana ha criticato la leader birmana per non essersi schierata contro le violenze e le discriminazioni nei confronti della minoranza musulmana presente nel suo paese
La premio Nobel per la pace del 2014 Malala Yousafzai ha invitato la leader birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace del 1991, a condannare il “vergognoso” trattamento della minoranza musulmana Rohingya in Birmania, sostenendo che “il mondo si aspetta” una sua dichiarazione diretta in merito.
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“Negli ultimi anni ho condannato più volte questo tragico e vergognoso trattamento”, ha scritto la giovane pakistana sul suo profilo Twitter. “Sto ancora aspettando che la mia collega premio Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso”.
Alcuni attivisti per i diritti umani indonesiani, il più grande paese musulmano del mondo, hanno addirittura invitato il comitato per l’assegnazione del Nobel a ritirare il premio alla leader birmana.
Gli scontri tra le forze di sicurezza e i Rohingya sono iniziati il 25 agosto, quando alcuni combattenti appartenenti alla minoranza musulmana hanno attaccato 30 avamposti militari tra stazioni della polizia e basi di frontiera in Birmania.
I combattimenti sono continuati per oltre 24 ore. Alla fine oltre 100 persone, la maggior parte militanti Rohingya, sono rimaste uccise negli scontri con le forze di sicurezza birmane.
Da quel giorno i villaggi Rohingya sono soggetti a spedizioni punitive e uccisioni di massa da parte delle forze dell’ordine.
My statement on the #Rohingya crisis in Myanmar: pic.twitter.com/1Pj5U3VdDK
— Malala (@Malala) September 3, 2017
Le Nazioni Unite hanno più volte accusato il governo birmano di aver commesso crimini contro l’umanità nelle proprie offensive militari contro i Rohingya.
L’Onu infatti ritiene che il governo della Birmania stia compiendo una pulizia etnica ai danni della minoranza, e lo accusa di crimini contro l’umanità.
L’Unhcr ha stimato che nel 2012 più di 110mila persone (per lo più dell’etnia rohingya) sono scappate dal Birmania a bordo di imbarcazioni di fortuna verso la Thailandia, le Filippine, la Malesia e l’India.
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Dall’ottobre 2016 oltre 87mila appartenenti a questa comunità sono fuggiti nei paesi vicini dalle repressioni della maggioranza buddista del paese e dei militari, andando ad aggiungersi alle altre migliaia già rifugiatisi in quei paesi a seguito delle precedenti persecuzioni.
La persecuzione contro questa comunità affonda le radici nella seconda metà del Ventesimo secolo. Il primo grande esodo si verificò nel 1970, quando 250mila Rohingya furono costretti ad abbandonare le proprie case dall’esercito birmano, per trovare rifugio in Bangladesh.
Una seconda ondata migratoria si registrò tra il 1991 e il 1992. La maggior parte di loro fu rimpatriata forzatamente nello stato di Rakhine sotto l’assistenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a metà degli anni Novanta.
Al momento, almeno 125mila appartenenti a questa comunità stanno fuggendo verso il Bangladesh, un paese in cui già vivono almeno 400mila Rohingya. La presenza dei Rohingya rappresenta una fonte di tensione tra le due nazioni asiatiche perché sia il governo di Dacca sia quello di Naypyidaw li considerano cittadini stranieri.
A questa comunità il governo birmano nega infatti la cittadinanza. Nonostante le loro radici nella regione risalgano a diversi secoli fa, i Rohingya sono ancora considerati dai cittadini birmani come immigrati clandestini provenienti dal vicino Bangladesh.
Dal canto suo, il governo di Dacca non riconosce ai Rohingya l’appartenenza alla comunità nazionale e tratta i rifugiati dalla vicina Birmania come comuni immigrati. Neanche l’India riconosce la protezione internazionale agli appartenenti a questa comunità che fuggono dalle persecuzioni dell’esercito di Naypyidaw.
Esiste infatti un piano di New Delhi per espellere quasi 40mila Rohingya che vivono in India, perché il governo indiano li considera alla stregua di immigrati illegali.
A luglio 2017, gli Stati Uniti hanno chiesto al governo birmano di permettere l’accesso al paese e in particolare alla zona delle operazioni a una commissione di inchiesta dell’Onu sulle violenze in corso contro questa comunità.
L’amministrazione guidata da Aung San Suu Kyi ha però rifiutato l’accesso alla commissione d’inchiesta, negando le accuse delle Nazioni Unite. Non solo, le autorità birmane hanno anche bloccato gli aiuti umanitari provenienti da tutte le agenzie Onu destinati ai civili nelle zone delle operazioni militari dell’esercito di Naypyidaw nello stato di Rakhine.
Il trattamento discriminatorio dei circa 1,1 milioni di Rohingya, comunità a maggioranza musulmana, presenti in un paese quasi integralmente buddista, rappresenta al momento il più importante problema di rispetto dei diritti umani in Birmania.
Il paese asiatico si ritrova ad affrontare la questione dell’integrazione di una comunità che è vista come estranea dalla maggioranza della popolazione, mentre cerca di uscire da decenni di dittatura militare che ha oppresso l’opposizione birmana e limitato i diritti e le libertà nel paese.
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