L’ultimo comunista d’Europa
Il partito comunista Akel, di cui fa parte il presidente Christofias, rischia una sonora sconfitta al ballottaggio presidenziale del 24 febbraio
L’ultimo comunista d’Europa
“Me ne vado a testa alta, perché credo di aver fatto tutto quello che potevo per Cipro in circostanze eccezionalmente difficili”. Alla vigilia del voto che deciderà il suo successore, Dimitris Christofias non smette di combattere. Ma cinque anni dopo la sua elezione, con un Paese economicamente in ginocchio e una divisione politico-militare rimasta intatta, è costretto sulla difensiva. D’altro canto l’isola di Cipro non è Cuba né tantomeno lui – primo (e unico) leader comunista nella storia dell’Unione Europea – si è rivelato il rivoluzionario che qualcuno sperava.
Memore del suo passato sotto falce e martello, Christofias oggi critica l’avidità delle banche e la finanza internazionale con più credibilità di molti suoi colleghi. Eppure, i ciprioti si aspettavano ben altro dall’uomo che nel 2008 era riuscito a stupire tutti: “Saranno la vita e la gente a dire se sono l’ultimo comunista d’Europa”, sogghignava davanti ai giornalisti che lo stuzzicavano sul suo (presunto) profilo antisistema.
In attesa delle biografie, gli elettori sembrano essersi fatti un’idea. Anche per questo, forse, ha deciso di non ricandidarsi. Una promessa mantenuta per i mancati progressi verso la riunificazione dell’isola, spiega lui. Una brutta figura evitata, suggeriscono piuttosto i sondaggi. Perché se in tempi di crisi tutti i governi in carica soffrono di un calo di consensi, per Christofias e il suo Akel (Partito Progressista dei Lavoratori) – che ha guidato per più di un ventennio – è piuttosto un’emorragia. Il suo candidato Stavros Malas, ex ministro della Salute, è riuscito a strappare il ballottaggio di domenica prossima per il rotto della cuffia. Ma la vittoria di Nikos Anastasiades, leader dei conservatori di Disy (Raggruppamento Democratico), non sembra in discussione, per la gioia delle cancellerie europee che puntano su di lui per il via libera al piano di salvataggio del Paese.
Ma non si può dire che a Nicosia tornerà il controllo della grande finanza, perché in effetti non se n’è mai andato. Che il ‘compagno’ Christofias non abbia potuto o voluto, il fallimento lo ammette lui stesso: “Il governo non può essere incolpato per la crisi economica, ignorando una crisi globale e le responsabilità compromettenti delle banche e dei suoi controllor”.
Certo, il 66enne presidente uscente non è stato fortunato. Eletto nell’anno in cui l’isola adottò l’euro consolidando il suo ruolo a Bruxelles, sembrava avere una mano vincente. Invece, se ne va con le casse vuote e una disoccupazione a livelli record, lasciando un Paese in ginocchio che alla troika Ue-Bce-Fmi chiede un prestito da 17 miliardi di euro, 10 dei quali serviranno solo per salvare le banche (molto esposte sul mercato greco e il debito di Atene). Per uscirne, lui che a Mosca ha preso il dottorato in storia ai tempi dell’Unione Sovietica e parla correntemente russo, ha tentato anche la carta a sorpresa: da Putin sono arrivati 2 miliardi e mezzo di euro, ma più che le nostalgie comuniste ha pesato l’occhio di riguardo di un Paese che proprio nelle banche cipriote avrebbe trovato la lavatrice ideale per i soldi di dubbia origine dei suoi oligarchi. Non a caso, una delle condizioni del maxi-prestito riguarda proprio il controllo esterno sulla trasparenza del sistema creditizio.
Al crollo della sua popolarità hanno contribuito anche gli insuccessi strategici sulla divisione dell’isola, spaccata in due dal 1974 quando l’esercito turco ne occupò la parte nord dopo un tentativo di golpe sponsorizzato dai colonnelli greci. Oggi la situazione è ancora in stallo, e le prospettive poco incoraggianti: neppure la presidenza di turno dell’Ue nel semestre appena concluso ha portato qualche risultato, anche perché Ankara ha deciso di congelare i negoziati con Bruxelles. Del resto, Christofias è stato scaricato anche dal suo uomo al di là della barricata che divide in due la capitale Nicosia, l’ex leader turco-cipriota Mehmet Ali Talat con cui in gioventù condivise la militanza prima dell’esplosione del conflitto interno: “Semplicemente non mi ascoltava. Aveva difficoltà a prendere decisioni, come sempre. È il tipo di persona che chiamiamo ambivalente”.
Il ritratto di un leader indeciso, intempestivo, impaurito. Mancato, insomma. Ma forse, anche specchio di un’amministrazione non sempre all’altezza. Come nel caso dell’enorme esplosione in un deposito di munizioni che nel 2011 è costato a 13 persone la vita e al Paese oltre il 10 per cento del Pil, scatenando la rabbia della popolazione. E se in politica estera spicca l’avvicinamento a Israele, con cui ha avviato esplorazioni offshore che hanno fatto emergere ricchissime riserve di gas naturale, saranno altri a raccoglierne i frutti.
Domenica prossima, dal suo discorso pronunciato in un tripudio di folla a Nicosia saranno passati esattamente cinque anni: “Domani comincia un nuovo giorno. Vedremo molte difficoltà davanti a noi. Ma domani uniremo le nostre forze per raggiungere la riunificazione del nostro Paese“. Il nuovo presidente, c’è da scommetterci, sarà più prudente.