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Lotta per il petrolio

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Il governo vuole l’ingresso dei privati nell’azienda petrolifera nazionale. Ma a beneficiarne potrebbero non essere i messicani

Con un solenne discorso alla nazione, lo scorso 12 agosto, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha annunciato l’imminente modifica degli articoli 27 e 28 della costituzione.

Non articoli qualsiasi, bensì quelli inseriti dall’eroe rivoluzionario ed ex presidente Lázaro Cardenas quando nel 1938 nazionalizzò le risorse energetiche ed espropriò le multinazionali estere del settore.

La riforma costituzionale, se approvata, consentirà ai privati di stipulare contratti di profit-sharing e partecipare così alle diverse fasi di individuazione, estrazione, raffinazione e trasporto di petrolio e gas naturale messicano. Ulteriori dettagli circa tempi, modalità e coinvolgimento dei privati, comunque, non sono stati resi pubblici.

Nelle intenzioni del partito al governo, il Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri), l’apertura ai privati dovrebbe portare investimenti per quasi 50 miliardi di dollari all’anno e conoscenze tecnologiche tali da permettere la modernizzazione della compagnia petrolifera nazionale, la Pemex.

Negli ultimi anni, la compagnia ha visto declinare notevolmente la propria competitività e credibilità internazionale: una riduzione del 25% nella produzione di petrolio solo nell’ultimo decennio, debiti per 60 miliardi di dollari e diversi scandali legati a casi di corruzione sono alcuni dei motivi.

«Il settore privato darà un grande contributo che permetterà di ridurre i prezzi, il che si rifletterà sulle tasche dei messicani», ha dichiarato Gerardo Gutierrez Candiani, direttore del Consiglio Coordinatore Impresariale.

L’importante agenzia internazionale di valutazione del credito Fitch Ratings ha espresso il suo apprezzamento per la riforma, pur mantenendo qualche riserva circa le modalità e le tempistiche di un’operazione che necessiterà di diversi anni prima di dare i suoi frutti.

Così come il New York Times, che si è detto ottimista circa l’afflusso di capitali privati che potrebbero dare nuova linfa alla principale azienda nazionale e avere ricadute benefiche sulla totalità dell’economia messicana, la cui crescita è negli ultimi anni notevolmente rallentata (solo l’1% nel primo semestre del 2013).

Nel contempo sono però diverse le voci critiche che si alzano da più parti nella società messicana. Cuahtémoc Cárdenas, figlio di Lázaro e leader del Partito della Rivoluzione Democratica (Prd), ha accusato Peña Nieto di voler tradire gli ideali della rivoluzione.

Anche l’analista geopolitico e giornalista Alfredo Jalife-Rahme è molto critico sulla proposta di riforma della Pemex: «Ci siamo consegnati ad un modello neoliberale finanziario di cui siamo vittime: Wall Street ci ricatta con la fuga di capitali, la caduta della borsa e la svalutazione del Peso e, con la nostra banca nazionale (Banamex, ndr) per il 92 per cento di proprietà della statunitense Citigroup, sono benissimo in grado di farlo» ha dichiarato il giornalista a “The Post Internazionale”.

«Quando Peña Nieto si recò al G8 in Irlanda fece prima tappa nella sede londinese del “Financial Times” insieme al Ministro delle Finanze Videgaray. Cosa ci sono andati a fare è chiaro: sono andati a svendere il petrolio messicano. Non è un segreto che il “Financial Times” sia controllato, attraverso il gruppo “Economist”, dalla famiglia Rothschild. Guarda caso i proprietari della British Petroleum», continua Jalife-Rahme. «È in corso un processo contro BP per i danni ambientali provocati nel Golfo del Messico (l’esplosione della piattaforma petrolifera Macondo ad aprile 2010, ndr), e ora vogliamo permettere loro di lucrare sul nostro petrolio? E’ schizofrenico!»

La Pemex è l’azienda petrolifera più tassata al mondo, con una pressione fiscale del 67,5% – a fronte del 19% della Colombia e l’11% della Norvegia – e , secondo gli oppositori della riforma, questa sarebbe la causa principale che ha impedito all’azienda di modernizzare i propri impianti. Un ripensamento del piano fiscale cui è sottoposta renderebbe, secondo Jalife-Rahme, superfluo l’afflusso di capitali privati.

Ancor più che le conseguenze economiche, sono quelle sul piano ambientale ad agitare interi settori di popolazione. Pablo Álvarez Watkins, membro dell’Unione Scienziati Impegnati con la Società e docente presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico, denuncia che la riforma non terrà conto delle energie rinnovabili, un’opinione condivisa anche da Beatriz Olivera, coordinatrice del settore cambio climatico ed energia di Greenpeace. «L’iniziativa del presidente Nieto si basa unicamente sul petrolio e non si sa come questa si rifletterà nelle fonti energetiche meno inquinanti», ha dichiarato la Olivera al sito messicano “Animal Politico”.

Il timore è che, visto il graduale e inarrestabile esaurimento del petrolio di superficie, le aziende straniere punteranno allo sfruttamento di shale gas (gas da giacimenti non convenzionali) e petrolio a grande profondità. Queste risorse richiederebbero l’utilizzo del fracking, una tecnica di fratturazione idraulica del sottosuolo molto dispendiosa in termini di acqua ed altamente inquinante (paesi come Francia, Germania, Bulgaria e Irlanda l’hanno proibita) e l’esposizione al rischio di disastri naturali.

La battaglia per l’energia in Messico sembra essere solo all’inizio. Intanto, il due volte candidato presidenziale Andrés Manuel López Obrador ha inaugurato lo scorso 8 settembre la prima di una serie di mobilitazioni popolari destinata a risolversi il 22 settembre in una mega marcia nazionale.

«Non staremo a guardare mentre ci rubano il nostro petrolio ed inquinano le nostre terre», è stato lo slogan urlato da uno dei partecipanti alla dimostrazione. Come detto, la battaglia per l’energia messicana è solo all’inizio.

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