Qual è la posizione dell’Italia sul nuovo governo di Sarraj in Libia
Andando oltre l'ipotesi di un intervento militare, la posizione diplomatica italiana si basa su un approccio realista. L'analisi di Arturo Varvelli
La richiesta di aiuto del primo ministro libico Fayez Al Sarraj per proteggere i giacimenti petroliferi della Sirtica è stata presa seriamente in valutazione dalle cancellerie internazionali durante l’incontro G5 di lunedì 25 aprile, cui hanno partecipato il cancelliere tedesco Angela Merkel, il premier britannico David Cameron, il presidente americano Barack Obama, il presidente francese Francois Hollande e il nostro primo ministro Matteo Renzi.
Ma è all’Italia che spetterà un ruolo di primo piano in un eventuale intervento. Il nostro paese, negli ultimi mesi, ha lavorato incessantemente dietro le quinte per favorire l’insediamento e per sostenere il governo di Sarraj.
Con la visita del 12 del ministro Gentiloni, primo esponente di un governo occidentale, l’Italia ha rafforzato ulteriormente il suo ruolo nella crisi libica e si è attivata sostanzialmente per sostenere lo sforzo politico, economico e umanitario verso la stabilizzazione del paese.
Troppo presto naturalmente per poter vantare una “mission accomplished” in un paese nel quale per svariate ragioni l’instabilità sembra endemica, ma un passo importante nella strategia di Roma.
Una strategia che ha faticato ad affermarsi nei mesi scorsi, sia a causa delle uscite pubbliche di alcuni esponenti del governo italiano, che incautamente hanno dichiarato disponibilità e numero di truppe per un eventuale intervento (senza delinearne adeguatamente gli obiettivi e i limiti), sia per le pressioni di alcuni partner sempre propensi a un approccio muscolare, diretto o indiretto, per affrontare problemi politici certamente difficili, ma non privi di razionali speranze di soluzione.
La posizione della nostra diplomazia fa leva su due considerazioni di stampo realista:
1) una sistemazione pacifica e duratura della Libia può derivare unicamente da un accordo politico tra le parti e non da un nuovo intervento militare esterno che porterebbe nuovi scompensi. Ciò appare vero anche in prospettiva di contrasto all’Isis. Risulta storicamente evidente, infatti, una sovrapposizione tra stati falliti e l’emergere di gruppi jihadisti, mentre, al contempo tutti gli interventi degli ultimi 15 anni in Medio Oriente (dall’Afghanistan all’Iraq) non hanno certamente conseguito la stabilizzazione di queste aree;
2) una parte cospicua dei nostri interessi economico-commerciali ed energetici (come i più recenti investimenti Eni in Libia) sono presenti in Tripolitania. È quindi interesse dell’Italia mantenere buone relazioni con chi è in controllo di questa parte del paese svolgendo, piuttosto, un ruolo di mediazione e cercando di facilitare una ricomposizione del quadro politico e militare libico. In tal senso la posizione italiana è apparsa coerente subordinando una possibile azione di supporto a un preventivo accordo tra le parti e all’insediamento di un nuovo governo nella capitale riconosciuto dalla comunità internazionale.
I critici dell’operazione Serraj sosterranno che il nuovo governo appare come un fantoccio dell’Onu: manca ancora un voto del parlamento di Tobruk che lo legittimi ufficialmente; la soluzione appare per certi versi una forzatura delle Nazioni Unite; Serraj non è ancora (e forse mai lo sarà) in grado di controllare territorialmente il paese.
È vero in realtà che l’insediamento di Serraj costituisce un primo passo e che bisogna continuare a lavorare affinché si creino le condizioni per un po’ di stabilità “autoctona”. C’è bisogno di attivare ulteriormente un processo dal basso. Una sorta di Shura libica che sia in grado di innescare un processo di nation-building, ciò che per troppo tempo si è aspettato a fare.
Una nuova legittimità non è impossibile e l’arrivo di Gentiloni nella capitale ha voluto testimoniare che le condizioni di sicurezza attorno al nucleo di questo nuovo governo possono essere progressivamente rafforzate, anche grazie al silenzioso supporto dell’Italia e dei partner internazionali e soprattutto grazie al fatto che Serraj potrà tornare a controllare le finanze del paese e tornare a esportare in buona parte petrolio e gas che costituiscono la fonte principale di ricchezza del paese. Talvolta la legittimità può essere aiutata…
Se quindi dalla Tripolitania arrivano messaggi di speranza sulla ricostituzione di un’unica autorità nazionale, è nella Ciranaica che rimangono i nodi da sciogliere.
Il generale filo-egiziano Khalifa Haftar tiene una posizione ambigua verso Serraj definendo “golpisti” i metodi con cui il Consiglio di presidenza del premier si è insediato a Tripoli e sostiene che “parte della popolazione chiede la formazione di un consiglio militare”, ma garantisce al contempo di “non voler entrare nelle questioni politiche”.
Haftar e l’Egitto appaiono in attesa di comprendere se la nuova sistemazione di Tripoli possa essere una soluzione per tutta la Libia o se invece la Cirenaica sarà “costretta” a una secessione.
Il presidente francese Hollande, durante la sua visita al Cairo nei giorni scorsi, ha sostenuto ufficialmente la linea del governo di unità nazionale ma ha ancha concluso contratti miliardari con l’Egitto per la fornitura di armi, alcune delle quali non è difficile immaginare finiscano proprio nelle mani di Haftar.
La crisi nelle relazioni tra Roma e il Cairo per il caso Regeni complica un compito già improbo della nostra diplomazia, ricucire ora l’est con l’ovest del paese. Pensare nel recente passato che l’Egitto potesse avere una posizione più conciliante relativamente al ruolo di Haftar, cessando di supportarlo, è stato un errore.
La storia si ripete. Nel 1970 Aldo Moro era speranzoso che Nasser mediasse con Gheddafi in nostro nome per la questione della comunità italiana. Nasser bleffò e furono proprio gli egiziani a sostituire in Libia i 15 mila italiani cacciati dal Colonnello. Al Sisi l’ha ribadito recentemente a Repubblica: la carta Haftar non va fatta cadere. Questo rimane oggi il problema fondamentale.
— L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Libia: dall’Italia massimo sostegno al governo di Sarraj” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore
* Arturo Varvelli è Responsabile Osservatorio Terrorismo ISPI ed esperto di Libia