Libia, accordo per cessate il fuoco permanente. Ma i mercenari restano un’incognita
I combattenti stranieri dovranno lasciare il Paese entro tre mesi ma non è chiaro come e dove andranno
Il nuovo accordo per la pacificazione della Libia, seguito a mesi di colloqui in ben 4 Paesi e alla graduale ripresa della produzione petrolifera, nasconde più di un’incognita, tra cui il destino di migliaia di mercenari schierati negli ultimi anni da entrambe le parti in conflitto.
I contendenti libici hanno firmato oggi un accordo per “un cessate il fuoco permanente in tutte le aree” del Paese africano, grazie alla mediazione della missione Unsmil delle Nazioni Unite e ai negoziati avvenuti tra Marocco, Egitto, Svizzera e Germania, un’intesa celebrata con una cerimonia tenuta a Ginevra e testimoniata dal primo volo commerciale passeggeri operato oggi dopo oltre un anno tra Tripoli e Bengasi.
Dopo la mediazione guidata questa settimana dall’inviata dell’Onu, Stephanie Williams, la Commissione militare congiunta libica 5+5 ha raggiunto quello che le Nazioni Unite hanno definito un “importante punto di svolta verso la pace e la stabilità”. L’intesa, conclusa a Ginevra dopo i colloqui intercorsi tra i rappresentanti militari del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli, l’unico riconosciuto a livello internazionale, e l’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar, sarà comunque seguito da una serie di negoziati politici previsti il mese prossimo in Tunisia.
Tuttavia, a fronte dei passi avanti compiuti, il destino dell’accordo non è affatto scontato. A caldo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è già chiesto polemicamente “quanto durerà” quest’intesa, definita “poco attendibile” perché “non negoziata ai più alti livelli”. Inoltre, l’accordo resta legato, tra l’altro, alla smobilitazione delle milizie, alla formazione di una forza armata guidata da un comando unificato e al futuro dei mercenari, tutti problemi che hanno afflitto per anni il processo di pace in Libia. Soprattutto perché, come ovvio, i gruppi terroristici restano fuori dal cessate il fuoco e proprio la lotta all’estremismo è stata spesso usata negli ultimi anni per giustificare gli interventi militari, anche stranieri e con personale a contratto, nel Paese.
I combattenti a pagamento sono diventati una parte importante delle truppe attive in Libia e non sarà semplice sbarazzarsene senza un adeguato meccanismo, che possa essere controllato a livello internazionale. Quest’ultimo punto in particolare, dopo il sostanziale fallimento di missioni come la EUNAVFOR MED “Irini” a guida italiana, si preannuncia particolarmente difficoltoso, vista la lunga indisponibilità delle parti ad ammettere l’impiego di mercenari sul campo, anche di fronte all’evidenza.
Nonostante i recenti disimpegni a favore di altri teatri, nel Paese africano potrebbero esserci ancora migliaia di miliziani, impiegati in passato da entrambe le parti in conflitto. Se negli anni l’Osservatorio siriano per i diritti umani ha documentato l’invio da parte della Turchia di almeno 18 mila mercenari siriani in Libia, in gran parte già ritirati dal Paese, per combattere al fianco di Tripoli, gli investigatori delle Nazioni Unite hanno stimato in oltre 1.200 i combattenti russi, o provenienti dall’Asia centrale russofona o dai Balcani schierati al fianco del maresciallo Khalifa Haftar, oltre a 2mila mercenari siriani reclutati nelle zone controllate da Damasco e ad altri 2mila sudanesi.
L’annuncio di Ginevra per il ritiro del personale combattente a contratto come parte dell’accordo tra i contendenti in Libia segue un progressivo disimpegno di queste forze, già testimoniato di recente da varie fonti. Tuttavia questo non esaurisce affatto la questione, limitandosi a trasferire il rischio rappresentato dai miliziani a contratto in altri teatri di conflitto, come il Caucaso.
Negli ultimi mesi si sono rincorse diverse voci circa il parziale ma progressivo abbandono del fronte libico sia da parte dei combattenti stranieri impiegati da Haftar che di quelli fedeli al Governo di Accordo Nazionale di Tripoli. Di recente, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, Ankara ha ridotto gli ingaggi dei mercenari siriani schierati in Libia, diminuendone i compensi da 2.000 a 600 dollari al mese, organizzando vari convogli di ritorno in Siria dal Nord Africa per oltre 2.200 combattenti in scadenza di contratto. A questi, si aggiungono almeno 1.500 mercenari schierati con Haftar che hanno lasciato il fronte libico dopo la sconfitta dell’assedio di Tripoli.
In particolare tra le fila del generale ribelle ha giocato un ruolo fondamentale la compagnia militare privata russa Wagner, accusata dal Comando dell’esercito statunitense in Africa (AFRICOM) di “aver prolungato il conflitto con tattiche irresponsabili che hanno provocato sofferenze inutili e la morte di civili innocenti”. Nonostante il conglomerato privato russo, composto da appaltatori militari e varie ditte di sicurezza, non abbia ufficialmente rapporti con il Cremlino, i legami con Yevgeniy Prigozhin, stretto collaboratore di Vladimir Putin, fa quantomeno pensare a una forma di “coordinamento” con le autorità di Mosca. Non a caso, i combattenti pagati dal gruppo Wagner sono stati segnalati in Siria, Libia, Ucraina, Bielorussia e Repubblica Centrafricana, tutti teatri di interesse per il Cremlino.
Il disimpegno della compagnia militare privata è cominciato con il fallimento dell’offensiva di Haftar su Tripoli, è proseguito con i progressivi contatti tra i presidenti turco e russo Erdogan e Putin e con gli accordi tra il governo riconosciuto e il parlamento di Tobruk ed è culminato la scorsa settimana con le sanzioni imposte dall’Unione europea a Prigozhin a causa degli “stretti legami, anche finanziari” con il gruppo Wagner e delle violazioni di un embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite contro la Libia, che “ha minacciato la pace, la stabilità e la sicurezza” del Paese.
Nonostante il progressivo ritiro e l’accordo di Ginevra, che prevede la smobilitazione dei mercenari e la smilitarizzazione delle linee del fronte, soprattutto intorno a Sirte e al-Jufra, la presenza di miliziani del gruppo russo è ancora segnalata nelle aree a sud e a ovest della città libica, dove sono state scavate trincee per oltre 100 chilometri.
Inoltre, anche se le parti in conflitto, i loro sponsor internazionali e le Nazioni Unite dovessero garantirne un ritiro completo, dove andranno a finire questi combattenti? Probabilmente andranno a ingrossare le fila di truppe impegnate in altri conflitti, seguendo la crescente rivalità tra Ankara e Mosca.
Per quanto riguarda i combattenti affiliati al gruppo Wagner, il cui identikit è piuttosto variegato, componendosi per lo più di soggetti russofoni a cui si aggiungono anche elementi serbi, ucraini e singoli personaggi provenienti da altri Paesi europei, il presunto legame con gli interessi del Cremlino fa pensare a una progressiva distribuzione nei tanti teatri di interesse per Mosca.
Discorso simile vale per i combattenti di nazionalità siriana, in particolare quelli reclutati nelle aree del Paese arabo controllate dalla Turchia. Molti di questi mercenari, non tutti già impiegati in Libia, hanno ad esempio già raggiunto il fronte del Nagorno-Karabakh, conteso tra Yerevan e l’Azerbaigian.
Secondo la ricercatrice Elizabeth Tsurkov, la maggior parte di questi combattenti non sono affatto mossi da motivi ideali o di natura terroristica legate al jihadismo internazionale, quanto piuttosto dal portafoglio. Molti dei miliziani reclutati in Siria per combattere all’estero avevano già smesso di combattere prima di essere spediti in altri teatri di conflitto, o perché smobilitati dall’esercito o dalle forze ribelli dopo anni di servizio e battaglie o perché tentati dal trovare una professione meno pericolosa. Tuttavia, l’economia siriana è così disastrata che anche i combattenti in congedo con una certa esperienza e capacità nel mercato del lavoro non riescono a trovare un’occupazione decente.
Non è un caso che la maggioranza di questi mercenari sia spesso reclutata tra le fasce più povere e fragili del Paese arabo, sempre più larghe visti gli effetti del conflitto. Quasi dieci anni di guerra e il conseguente tracollo economico della Siria hanno infatti portato migliaia di giovani a dover scegliere di andare a combattere all’estero per mantenere le proprie famiglie, piuttosto che restare in un Paese dove non è rimasto quasi nulla, alimentando la destabilizzazione di altre regioni e le ambizioni delle medie e grandi potenze, che usano un’intera generazione come carne da cannone per i propri interessi.
Leggi anche: Libia, l’Italia rischia di ritrovarsi in casa i mercenari siriani di Erdogan e Putin