Le mille facce di Beirut, crocevia del Medio Oriente: Chiara Clausi racconta a TPI una città di contrasti
Cliniche per la chirurgia plastica e famiglie di profughi siriani all’angolo della strada. Ma anche locali notturni e quartieri governati dal fondamentalismo. La città, ci racconta la corrispondente in Libano Chiara Clausi, autrice di un libro-reportage dalla capitale, è in “continua festa perché la danza di oggi potrebbe anche essere l’ultima”
Ha scritto un libro-reportage, “Beirut au revoir” (Paesi edizioni), una sorta di guida spirituale del Libano, la cui prima protagonista è la capitale Beirut, una città e un Paese «di contrasti». Ce li racconta?
«Negli anni ’70, il Libano era considerato la Svizzera del Medio Oriente, frequentata da personaggi famosi del jet set internazionale, come la cantante Dalida. Ma da allora, soprattutto dal 2019, è cambiato molto. L’atmosfera patinata del passato è svanita. Basta guardare i media internazionali, che raccontano ormai solo il crollo economico, le minacce di Hezbollah, le tensioni con Israele, etc. Eppure il Libano e Beirut sono più di questo: ho voluto raccontarne non solo le ombre ma anche lo spirito di un popolo accogliente ed empatico, capace di adattarsi alle sventure, e le sue bellezze, naturali e artistiche».
Ampio spazio è dedicato alla musica e alla letteratura.
«I media sembrano più interessati alla storia, alle guerre, alla religione ma avendo vissuto qui si capisce che c’è dell’altro. L’offerta musicale è interessante: molte artiste pop libanesi, come Nancy Ajram, sono delle vere star. Donne emancipate che potremmo incontrare benissimo a Londra o a Parigi. Attraverso melodie arabeggianti parlano di amore, amicizia, dolore, eppure restano “ghettizzate” nell’area mediorientale. Non c’è solo la musica però, basta ricordare grandi autori come Amin Maalouf, i cui romanzi permettono di capire la complessa storia di questo popolo, attraverso i sentimenti di chi ne fa parte. Senza dimenticare Khalil Gibran, che meglio di chiunque altro colse lo spirito profondo del Libano, anche dal punto di vista filosofico».
«A Beirut – scrive – si può imparare di nuovo a pregare». Che cosa intende?
«Spesso si parla di un Occidente in crisi morale, dove gli obiettivi materiali, il successo e l’affermazione di sé sembrano l’unico fine della vita. Qui invece, in primis attraverso i suoni, si respira un’aria diversa. Convivono comunità religiose differenti, musulmane, cristiane cattoliche e ortodosse, anche orientali. La Pasqua, ad esempio, si celebra ogni anno due volte e spesso poco dopo comincia il Ramadan, che si chiude con un’altra festività. Le campane delle chiese, il richiamo alla preghiera nelle moschee, la rottura del digiuno (Iftar) con queste grandi famiglie che si riuniscono al calar del sole per mangiare insieme: è un modo diverso di vivere la religiosità, le tradizioni e la vita quotidiana, un richiamo spirituale per chi vive in Europa».
Eppure, scrive: «Beirut è una continua festa perché la danza di oggi potrebbe anche essere l’ultima». Come si coniuga la spiritualità con le cliniche per la chirurgia plastica?
«Il Libano è un Paese multidimensionale e dalle mille facce, non solo dal punto di vista religioso. Qui convivono ricchissimi e poverissimi, donne islamiche velate ma anche libanesi francofone che a Beirut abitano nel quartiere di Achrafieh, dove la chirurgia estetica è molto diffusa. Anche se la cultura libertina è profondamente radicata nel Paese, senza generalizzare, per molte donne, persino le più emancipate, realizzare un buon matrimonio resta un viatico per il successo e così la seduzione e l’aspetto fisico assumono grande importanza. Insomma è un Paese sorprendente che sfida molti pregiudizi e paure collegate, nel nostro immaginario, al Medio Oriente. Osando un po’ invece e vincendo i propri preconcetti, ci si rende conto che a volte la paura è solo un nostro problema e di avere davanti tante mani tese».
Tra tanti colori e sapori non dimentica l’altra faccia del Paese: il narcotraffico, le centinaia di migliaia di profughi siriani, la corruzione, la schiavitù del sistema della Kafala.
«Sono problemi complessi che ho toccato direttamente con mano, ma che bisogna fare attenzione a non generalizzare. La corruzione è endemica e la stessa popolazione accusa la classe dirigente di aver depredato le risorse pubbliche per arricchimento personale: basta ricordare il caso dell’ex governatore della Banca centrale, Riad Salameh, accusato di riciclaggio. È un fenomeno sistemico in cui élite corrotte manipolano le fasce più povere della cittadinanza per mantenere il potere, a costo di trascinare il Paese nel baratro economico e non solo. Nella valle della Bekaa, ad esempio, enormi coltivazioni di marijuana si estendono in una sorta di terra di nessuno. Tutti sanno ma lo Stato non interviene. Lo stesso accade, malgrado i sequestri, con altre sostanze, come ad esempio il captagon proveniente dalla vicina Siria».
Beirut invece, scrive, è piena di uomini dei servizi segreti: è una capitale di spie?
«È una realtà che rispecchia la posizione geografica e politica del Libano, vero crocevia del Medio Oriente. Qui si giocano diversi interessi e rivalità internazionali: tra Iran e Arabia Saudita; con Israele; con il vicino siriano, senza dimenticare Usa, Francia e Regno Unito. Poi ci sono gli interessi economici ed energetici, visti i progressi dei negoziati con Israele per lo sfruttamento dei giacimenti al largo del Mediterraneo. Sembra un aspetto romanzesco ma la presenza di agenti segreti esteri rivela l’importanza strategica, sia a livello regionale che globale, del Paese che è sempre sull’orlo della guerra tra Hezbollah e Israele».
Al Sud i nostri soldati sono in prima linea come forza di interposizione Onu.
«Sulla Linea Blu la situazione è sempre sul filo del rasoio. Ho visto i tunnel illegali scavati da Hezbollah. Poi a luglio ci sono state nuove frizioni con lanci di razzi da un lato e dall’altro del confine. Ma, finora, il meccanismo negoziale tripartito che l’Onu usa per mediare tra le parti è riuscito a evitare il peggio».
Una parte di Beirut è controllata proprio da Hezbollah, che lei definisce «i padroni della città».
«È un quartiere periferico che si chiama Dahie e al suo ingresso i libanesi amano ripetere, scherzosamente: “Benvenuti nella Repubblica Islamica dell’Iran”. È un salto in un’altra parte del mondo rispetto alla Downtown dei negozi di lusso vicino alla Corniche, dove sembra di essere a Parigi. Una volta mi capitò di recarmi nel quartiere a maggioranza sciita per pagare una tassa necessaria a ottenere il visto per l’Iran, dove avrei seguito le elezioni presidenziali del 2021. La banca esattrice, un istituto iraniano, ha la propria sede lì: già questo dice tutto. Così mi capitò di chiedere informazioni in un salone da parrucchiere ma, dopo aver aperto la porta, il proprietario mi invitò a uscire. Le signore presenti erano irritate dal fatto che non portassi il velo. Non mi è mai capitato nulla del genere nel resto della città ma è una delle mille Beirut che coesistono».
Ha incontrato e cita molti giovani. Quali sono le loro paure e le loro speranze?
«Dopo la “Thawra”, la seconda primavera libanese dell’ottobre 2019, le speranze di cambiare finalmente il Paese e di farla finita con la corruzione e una classe dirigente predatoria erano tante. Tuttavia, i giovani con cui ho parlato dopo l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 erano già disillusi. La maggior parte voleva emigrare in Europa o in Nord America, mete difficili da raggiungere per chi possiede un passaporto libanese. Sono ragazzi pieni di speranze e sogni ma sono anche consapevoli che o dovranno abbandonarli, almeno in parte, oppure saranno costretti a ingegnarsi per andare all’estero. La tragedia è che chi riesce ad arrivare in Europa poi spesso si rende conto che il sogno non corrisponde alla realtà».