Beirut, dove passano gli aiuti per la Siria
Il giornalista italiano Carlo Brenner ha raccontato la capitale libanese, su cui oggi si riversano molti dei problemi della crisi siriana
In Libano si parla molto di Siria. Una volta il paese vicino era molto potente e la sua influenza ingombrante. L’esercito siriano ha lasciato il paese solo nel 2005 dopo l’attentato dove è rimasto ucciso il Presidente del Consiglio libanese Rafiq Hariti.
Oggi la Siria non è più potente ma continua a essere ingombrante. L’esercito dei soldati è stato sostituito da quello dei profughi: due milioni di persone in un paese di 5 milioni di abitanti.
Beirut è a sole due ore di macchina da Damasco, dove inizia il fronte più discusso e pauroso del pianeta. Eppure la vita qui trascorre tranquilla e la città non smentisce la sua fama come uno dei posti più divertenti del Medio Oriente.
Nel centro città la moschea di Al-Ameen e la Cattedrale di San Giorgio sorgono una di fianco all’altra, in perfetta armonia. Poco più avanti c’è l’Azarieh building. La guerra siriana è sconfinata in Libano a strati e questo edificio ne fornisce un perfetto esempio.
Nello stesso palazzo possiamo trovare lo studio di un architetto che deve risolvere un problema di piccole infiltrazioni in un bel palazzo del centro mentre al piano superiore ha sede l’ufficio regionale del World Food Programme, da dove vengono gestiti i carichi di aiuti che devono arrivare in Siria.
Il 90 per cento dei carichi parte da Mersin, in Turchia, dove si trova uno dei magazzini di una delle più grandi aziende alimentari del paese. Da gennaio 2011 il World Food Programme ha procurato un totale di 612 milioni di dollari in aiuti alimentari. Dal porto nel sud della Turchia gli aiuti vengono caricati su alcune navi che fanno scalo a Latakia, Tartus – entrambe in Siria – e infine a Beirut.
Parlo con il capo dello shipping per il World Food Programme, lo chiamano il capitano, anche se non lo è, ma visto che si occupa di navi è più semplice chiamarlo così. Appena scopre che voglio fargli alcune domande per il mio giornale mi dice che non è autorizzato a dirmi niente se non le informazioni ufficiali.
Nel caos siriano è difficile muoversi se si vuole portare a casa l’obiettivo: nel caso del World Food Programme sfamare le persone nelle aree sotto assedio. Qualsiasi organizzazione, governativa o non, che voglia soccorrere la popolazione siriana deve scendere a molti compromessi.
In alcune aree è necessario ricercare l’appoggio russo, in altre quello dei ribelli, in altre ancora quello governativo. Dal momento che la comunità internazionale non ha ancora deciso chi siano i “buoni” e chi i “cattivi” non è facile muoversi. La situazione è diplomaticamente complicata.
Ammettere di coordinarsi con una delle parti è come sottintendere che la si sta appoggiando, quindi meglio non parlarne ma agire in silenzio.
In ogni caso il porto di Latakia è pieno di navi russe e relativamente tranquillo, la gente va e viene dal Libano e la città cerca di vivere bene, nonostante tutto. Latakia è la città da dove viene la famiglia del presidente Assad e qui vive la maggioranza degli appartenenti alla sua religione, quella alawita.
Per i russi è di primaria importanza sia perché qui hanno una base aerea strategica ma anche perché hanno deciso di sostenere il presidente nella sua guerra contro l’Isis, Jabat al-Nusra e i gruppi ribelli che compongono la Free Syrian Army.
Anche a Tartus i russi sono solidamente presenti.
Questi due porti garantiscono l’accesso a città duramente colpite dalla guerra come Homs e Hama. A Beirut i problemi nascono in un secondo momento, quando i carichi di aiuti vengono messi sui camion che li dovranno portare a Damasco, dove ci sono due grandi magazzini di World Food Programme.
Per trasportare i carichi di aiuti dalle navi alle città sotto assedio il World Food Programme si affida a compagnie di trasporto locali. Se questo non è un problema in Libano, dove anzi c’è un florido mercato, in Siria la situazione è più complessa.
Quelli che vengono impiegati per trasportare i sacchi di cibo sono persone che molto spesso non mai fatto questo lavoro. Charles Kumar, un funzionario logistico del World Food Programme, spiega che alcuni di loro erano dei banchieri o persino dei medici prima di essere impiegati come trasportatori. Nonostante le varie difficoltà i siriani che sono soccorsi direttamente dal World Food Programme ogni mese sono 4,25 milioni.
Esco dal mio appuntamento senza aver ottenuto notizie esclusive ma ugualmente soddisfatto.
Incontro la mia ospite e vado a visitare una casa dove abita una famiglia australiana. La madre ci accoglie e ci offre da bere mentre io mi metto a parlare con suo figlio di ventotto anni. Gli chiedo se gli piace vivere a Beirut. Mi dice di no, troppo caotica e poi non ne può più di questi spari.
Gli chiedo a quali spari si riferisse e mi racconta che c’era stata una sparatoria sotto casa poco prima. Sventagliate di mitra, proprio mentre io mi incamminavo per arrivare, eppure non le ho sentite e neanche intuite dagli occhi dei passanti.
Non importa: stasera sia io che lui usciremo, come ha sempre fatto chi vive qua. Qua la guerra e il pericolo non fermano la vita, anzi ne aumentano l’importanza. Il Libano è un paese di contraddizioni e non si smentisce mai, a nessun livello.