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Lezioni di nazionalismo catalano

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La Catalogna vuole essere indipendente dalla Spagna. Ma che speranze avrebbe di esserlo realmente in Europa?

Lezioni di nazionalismo catalano

Non lasciava dubbi l’enorme striscione dietro il quale l’11 settembre scorso un milione e mezzo di catalani hanno invaso con bandiere gialle, rosse e blu le strade di Barcellona. Nel giorno della Diada, la festa nazionale della Catalogna in cui si commemora la caduta di Barcellona, avvenuta nel 1714 nelle mani delle truppe borboniche di Filippo V di Spagna, famiglie intere, giovani e anziani sono arrivati dalle 4 province della regione con un obiettivo chiaro: dichiarare la Catalogna “Nuovo Stato d’Europa”. Per capire le ragioni per cui, secondo un recente sondaggio ufficiale, il 51,1 per cento dei catalani voterebbe a favore dell’indipendenza dalla Spagna bisogna sondare nel seny e nella rauxa, quel misto di saggezza e passionalità che costituisce le fondamenta indissolubili della cultura popolare catalana.

La Catalogna, con i suoi sette milioni e mezzo di abitanti, è una delle regioni più ricche e industrializzate della Spagna. La sua economia costituisce quasi un quinto del Pil nazionale e le imprese catalane producono il 27 percento delle sue esportazioni. La Catalogna, dunque, è il terzo contribuente fiscale del Paese. Ma – e qui nascono i dissidi – è solo l’ottava comunità autonoma per finanziamenti ricevuti da Madrid. Secondo gran parte della società catalana e dei partiti che la rappresentano, i 16.500 milioni di euro di tasse che vengono trasferiti al governo centrale costituiscono un “saccheggio”. “Senza questo deficit, la crisi qui neanche si noterebbe”, lasciano intendere ripetutamente i vari esponenti dell’amministrazione regionale, guidata da Artur Mas, del partito nazionalista di destra Cdc. Questo ammanco giustificherebbe anche i drastici tagli a istruzione e sanità – le due competenze più importanti dell’autonomia – che negli ultimi mesi il governo locale ha imposto nel bilancio.

A livello politico, poi, le divergenze tra Madrid e Barcellona si sono acuite quando, due anni fa, una sentenza della Corte Costituzionale ha respinto 14 articoli dello Statuto catalano, una sorta di costituzione votata dal parlamento regionale e poi ratificata con un referendum popolare. La decisione dell’alta corte è stata percepita come uno smacco nei confronti delle richieste di maggiore autonomia politica e una pietra tombale su un’eventuale riforma federale dello Stato. L’altro asse attorno a cui ruotano le rivendicazioni separatiste è la forte identità culturale e linguistica che contraddistingue la regione. Il catalano è una lingua di tradizione secolare, tanto in ambito amministrativo quanto in ambito letterario, che ha resistito alla sua proibizione durante il regime franchista. Dal raggiungimento della democrazia in poi, le politiche scolastiche e la maggiore diffusione nei mezzi di comunicazione l’hanno reso sempre più vivo.

Attualmente circa 10 milioni di persone utilizzano il catalano, una cifra che lo colloca al nono posto in Europa per diffusione, al pari del greco e del portoghese. Tuttavia, solo il 36 per cento degli abitanti la considera la propria lingua abituale e questo diffonde un sentimento di frustrazione nella società catalana, che vede nello spagnolo – lingua co-ufficiale – una minaccia costante. Culturalmente parlando, poi, è evidente l’interesse a smarcarsi dai simboli considerati spagnoli. Quando due anni fa la Generalitat (il governo autonomo catalano) ha approvato la proibizione delle corride in Catalogna, c’era il sospetto più che fondato che la preoccupazione animalista fosse solo secondaria. Allo stesso modo, le competizioni sportive sono diventate il catalizzatore degli umori indipendentisti. Ben lungi dal celebrare le recenti vittorie calcistiche della Spagna, gran parte dei catalani riversa la propria passione nelle imprese della squadra di calcio del Barcellona, sentita come la propria Nazionale. Non è un caso che anche Pep Guardiola, catalano e fino a pochi mesi fa allenatore del Barça, abbia mandato durante la manifestazione dell’11 settembre un video in cui appoggiava la causa indipendentista.

Nel resto della Spagna, le reazioni alle richieste indipendentiste sono opposte. Secondo un recente sondaggio, quasi otto spagnoli su dieci considerano che le rivendicazioni catalane siano infondate. Tuttavia, una cospicua maggioranza ritiene che se un numero consistente di catalani decidesse con un referendum di diventare indipendente, ne rispetterebbe la volontà, sempre a patto che la separazione avvenga in maniera concordata. Non la pensa così il Partito Popolare al governo, che ha sempre mostrato l’intenzione di centralizzare maggiormente lo Stato. Così come non l’approvano la maggior parte dei mezzi di comunicazione conservatori, che portano avanti da anni una campagna di demistificazione verso tutto ciò che viene dalla Catalogna. In generale, la società spagnola, gravata ormai da 5 anni di crisi economica, assiste tra incomprensione, fastidio e senso di stupore alla volontà secessionista catalana.

Chi ha reagito in maniera decisa e inaspettata è stato il re Juan Carlos. Il capo di Stato, che ha sempre mantenuto un profilo politico molto basso, è intervenuto con una lettera in cui professa il bisogno di unione contro la tentazione di “inseguire chimere”, con evidente riferimento alla manifestazione di Barcellona. Anche i dirigenti delle grandi multinazionali con sede in Catalogna si sono mostrati tiepidi, se non apertamente contrari all’indipendenza. D’altra parte, il mercato spagnolo costituisce ancora il 40 per cento del fatturato delle loro imprese. Molti commentatori politici sottolineano inoltre come una parte del nazionalismo catalano sia riuscito a dirigere le colpe verso il governo centrale, sviando l’attenzione dalle conseguenze di un programma politico di tipo neoliberale che sta attaccando duramente il tessuto sociale. Il grido di “Madrid nos roba” (Madrid ci deruba), affermano, è un mantra demagogico che non risolve i problemi e la maggiore contribuzione fiscale catalana risponde al principio di solidarietà.

Il governo catalano di Mas, poi, è sempre sembrato più deciso a cavalcare il malcontento nazionalista per reindirizzarlo politicamente, piuttosto che pronto a preparare un’eventuale road map verso la secessione. Senza contare che la scelta dell’indipendenza si scontrerebbe con la politica dell’Unione europea. Il portavoce della Commissione europea, Olivier Bailly, ha affermato che un nuovo Paese che sorgesse all’interno di uno degli attuali Stati membri, sarebbe “fuori dalla Ue” e dovrebbe negoziare il suo ingresso. L’altra incognita riguarda il peso politico del nuovo Stato all’interno dell’Unione: se la Catalogna non riesce a far sentire il proprio peso a Madrid, come affermano i nazionalisti, che speranze avrebbe di farlo in Europa? Dopo il “no” di pochi giorni fa del governo spagnolo alla proposta di un nuovo patto fiscale per la Catalogna, si aprono nuovi scenari nella penisola iberica. Questa settimana Mas presenterà e farà votare al Parlamento catalano una risoluzione in cui chiede che i cittadini si esprimano sulla questione. Non si sa ancora se attraverso elezioni anticipate – a solo due anni dalle precedenti – o con un referendum. Quel che è certo è che la Catalogna si prepara a un autunno arroventato.

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