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Lettera dall’India

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Una parata di amore e odio tra India e Pakistan

Sull’autobus notturno della tratta Delhi-Amritsar condividevo la cuccetta con un affabile signore Sikh, con barba e turbante arancione. Il bocchettone dell’aria condizionata perdeva dal soffitto del cubicolo assegnatoci. Ogni volta che Morfeo sembrava vincere il rumore e i sobbalzi della strada, una goccia gelata si infrangeva sul mio viso come una saetta. Back to the start, ritenta e sarai più fortunato. La notte di “passione” con l’omone Sikh valeva però il Kippur di Amritsar, la Gerusalemme della religione dei “guru”.

Amritsar è il centro nevralgico della spiritualità Sikh da quando il quarto guru Ram Das la fondò nel 1577. Ospita il tempio d’oro, bello da star male, che per loro riveste la stessa importanza di una San Pietro o di una Mecca. Amritsar però è importante anche per un’altra ragione: dista un passo dalla frontiera indo-pakistana di Wagah, presso il paesotto confinante di “Attari”. Da là percorrendo soltanto 30 chilometri si arriva a Lahore, nel Punjab pakistano. Ancora un pezzetto in direzione nord-ovest e si arriva in Afghanistan: Amritsar dista da Kabul meno di quanto Milano disti da Napoli.

Ovviamente si tratta di distanze fittizie, come in tutti i casi in cui la geopolitica rende vana qualunque considerazione di carattere geografico. Unica frontiera teoricamente aperta fra i due paesi gemelli, Wagah è in realtà un confine sigillato. Lahore e Amritsar, di fatto, sono distanti più che mai. Per indiani e pakistani recarsi dalla parte opposta è semplicemente impensabile. Per i turisti chiedere un visto pakistano all’ambasciata di Delhi significa tuffarsi in un “Processo” di Kafka in versione orientale. In teoria si può, ma ci pensa la burocrazia a farti passare la voglia. Mi vengono in mente i racconti dell’infanzia libanese di mia nonna, che percorreva la Beirut-Tel Aviv in un’ora e mezzo di treno. Oggi si andrebbe a sbattere contro i fucili di Hezbollah o di Zaal.

Arrivo ad Amritsar a pezzi dopo il viaggio e subito mi tocca litigare col signore dell’autorisciò, che pretende di portarmi nell’albergo degli amici. Poco dopo mi rendo conto di aver portato una macchina fotografica sprovvista di memory card: vedo ovunque scatti formidabili, ma la memoria è rimasta a Delhi. E mi tocca pure digiunare. Il Kippur di Amritsar non comincia per il meglio.

Via le scarpe e di corsa a consolarsi al Golden Temple. Del gigantesco complesso dell’“Harmandir Sahib” mi imbatto dapprima nell’immenso refettorio, che nutre gratuitamente 30 mila pellegrini ogni giorno. L’industria della mensa colpisce in particolar modo per il lancio di stoviglie nella zona del lavaggio: i ritmi sono serrati, forti le urla e i rumori. Il sole colpisce il metallo in volo e abbaglia gli occhi con istantanei fulmini di luce. Una brodaglia ribolle nei giganteschi pentoloni e uomini barbuti lanciano il chapati ai commensali. Il fascino folklorico del tutto mi tenta, ma il prezzo è probabilmente un suicidio batteriologico. In quel momento ho ringraziato il cielo che fosse Kippur.

La grandissima “vasca del nettare” occupa la quasi totalità dell’area quadrata interna al perimetro del tempio. Nell’acqua è pieno di pesci. Sacri, suppongo. La solenne musica liturgica Sikh esalta l’impatto visivo del marmo bianco e dell’oro, mentre un moderno sistema di diffusione sonora ne diffonde le note in tutti i locali del tempio. Mi metto subito in fila per raggiungere il tempietto dorato al centro della vasca, l’Hari Mandir Sahib. E da lì che quattro oratori punjabi irradiano il tempio con le loro preghiere. La spiritualità del luogo non intimidisce gli intraprendenti pellegrini che cercano di accorciare l’interminabile coda con spintoni e argute strategie di sorpasso. Finalmente approdato al tempietto mi lascio vincere dal torpore: la musica, il luogo e la debolezza datami dal digiuno mi fanno chiudere gli occhi. Attraverso le palpebre intravedo la sfilata multicolore dei copricapi sikh.

All’uscita dal Golden Temple una grande targa metallica luccica colpita dai raggi del sole. “Nel giugno 1984 l’esercito attaccò questi sacri recinti con carri armati e cannoni per colpire l’entità e l’identità Sikh e diffamare una comunità che fece innumerevoli sacrifici per vedere l’India libera. Ci uccisero a migliaia, e non ebbero pietà di donne e bambini”. Il sanguinoso assedio del Golden Temple, ordinato da Indira Gandhi nel 1984, rimane ferita aperta della storia contemporanea indiana. All’interno delle mura sacre si erano barricati i gruppi più estremi dei guerrieri Sikh, che ambivano alla secessione e alla creazione di uno stato indipendente dall’India. Khalistan, lo avrebbero chiamato. La presidentessa non si fece scrupoli ad attaccare il santuario, nonostante il suo altissimo valore spirituale. Poco dopo l’assedio le sue guardie del corpo Sikh si vendicarono assassinandola. È una storia che meriterebbe un film, e la scenografia sarebbe ineguagliabile.

Nel pomeriggio mi imbarco su un camioncino scassato alla volta della frontiera di Wagah, per la cerimonia serale del “lowering of the flags”. Al tramonto l’esercito indiano e quello pakistano mettono in scena una parata militare che celebra la chiusura del confine e il ritiro delle bandiere. Tanto teatrale è stato reso il tutto che migliaia di spettatori si radunano alla frontiera ogni sera, da una parte e dall’altra. Le autorità hanno addirittura approntato delle tribune, proprio come in uno stadio.

Il simpatico signore dalla tunica bianca, che sembra uscito dalla Kabul di “Un cacciatore di aquiloni”, promette di portarmi avanti e indietro con il suo camioncino per 100 rupie. Staremo in tre davanti, mi dice, dietro è tutto sold-out. Io finisco al centro, con una gamba alla destra del cambio e l’altra alla sua sinistra. Ogni volta che mette la quarta mi arriva una botta sulle palle, ma dopo un po’ ci faccio l’abitudine.

All’arrivo è uno spettacolo di bancarelle: sono in vendita bandiere, stemmetti, noccioline e snack di ogni tipo. È proprio come da noi alle partite, ma con quel tocco speciale di caos indiano. Per poco riesco a sfuggire a un bambino cocciuto che vuole tatuarmi sul braccio la bandiera dell’India. Una marea di persone attende in piedi davanti al primo posto di blocco: l’atmosfera militaresca sa un po’ di farsa, ma basta a esaltare la folla in attesa. Donne e uomini vengono separati: nel carnaio della coda i contatti fisici ravvicinati sono inevitabili, si sta tutti appiccicati. Dopo lo stupro del dicembre 2012 a Delhi, divenuto caso nazionale con tanto di manifestazioni in tutto il paese, l’India sta infatti attraversando una fase di forte sensibilità sulla questione della violenza sulle donne. “In giro per il mondo Delhi è anche conosciuta come la ‘capitale degli stupri’, tutto questo deve finire!”, mi dice una signora commentando le file separate. Il caldo fa grondare tutti di sudore e mi convince ad acquistare del “pani” per evitare lo svenimento. “Pani” in hindi vuol dire acqua, quindi il digiuno l’ho violato ma non troppo.

I check di controllo sono svariati prima dell’arrivo alle tribune, e tra l’uno e l’altro la gente corre e spintona per guadagnarsi un posto più vantaggioso nella fila successiva. Qualcuno inciampa e cade nell’indifferenza generale. Le tribune fiancheggiano uno spazio rettangolare con i portoni di ingresso sui lati più corti. A destra e sinistra dell’ “India Gate” si stagliano due imponenti torrette di controllo militari. Una sentinella armata da una parte e una dall’altra fanno da cornice alla gigantografia di Gandhi, che campeggia al centro della porta. I mitra accerchiano il guru della non violenza, padre della patria. Dall’altro lato la gigantografia di Muhammad Ali Jinnah, leader della Lega Musulmana. Dietro alla bandiera pakistana il sole è come una gigantesca palla rossa che si abbatte su Lahore. Io mi ri-mangio le mani per aver lasciato a Delhi la memory card.

La cerimonia ci mette un po’ a incominciare, ma inni e canti di folklore distraggono la folla nell’attesa. Alle donne viene permesso di spaziare sulla pista destinata alla parata, dove si scatenano nel ballo. La canzone più popolare ha come ritornello un grido solenne: “Hindustani!”. Sugli spalti maschili si scatena una guerra tra i sostenitori del “tutti in piedi” e i sostenitori del “tutti seduti”. Io, causa digiuno, parteggio animatamente per questi ultimi. “Ni je!”, imparo subito a dire, “sedetevi!”. Non mancano lanci di bottigliette e spruzzi d’acqua tra membri degli schieramenti opposti, ma l’atmosfera rimane comunque scherzosa. Più di tutti mi irritano gli uomini della zona grigia, quelli del “se non si siedono loro allora non mi siedo nemmeno io, che se no starei dalla vostra parte”.

Un agitatore ufficiale lancia slogan nazionalistici mentre soldati inscenano le prime marce marziali. Ma se il primo si mantiene entro i limiti del politically correct, alcuni capipopolo degli spalti lanciano slogan contro i vicini pakistani. Nel pubblico qualcuno ghigna e li segue, ma i più non li assecondano. I militari continuano a marciare a passo sincronizzato, mentre i buffi pennacchi svolazzano sulle loro teste. A un certo punto il cancello viene aperto: in un’atmosfera elettrica un soldato pakistano e uno indiano si danno una possente stretta di mano. Gli sguardi sono accigliati, il clima solenne e marziale. Si guardano in cagnesco, avvicinandosi alla linea di confine fino a toccarla coi piedi ma giammai superandola. Poi il cancello viene chiuso a doppia mandata e l’attenzione si concentra sulle bandiere, che a poco a poco cominciano ad abbassarsi. La gente discute su quale delle due bandiere stia scendendo più velocemente, ma in realtà sono perfettamente sincronizzate.

All’uscita noto una targa dedicata a “tutti i caduti dimenticati del 1947”. Sia indiani che pakistani, specifica. Al limitare della terra di nessuno un grande cartello dà il benvenuto in India: “Welcome to the largest democracy in the world”, recita. La fiumana di gente che si allontana dal confine per rientrare nel paese mi fa venire in mente le immagini dei flussi di migranti che qui transitarono nel 1947, sul modello dello scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia nel 1922. I loro vestiti stracciati li rendono più simili ai profughi di allora facilitando la mia immaginazione.

Il ritorno ad Amritsar mi vede non più in grado di intendere e di volere: il digiuno e le fatiche della parata mi sopraffanno. Per fortuna all’arrivo in città la fidata Lonely mi manda in un ristorante buono dove metto fine al Kippur con dei funghi tikka masala. Il giorno dopo, prima di imbarcarmi sull’infernale pullman alla volta di Delhi, ho giusto il tempo per una visita al parco di Jallinwala Bagh. Il ragazzo del ciclorisciò mi scarica dopo la prima curva: il parco era a un passo dal mio albergo e io non lo sapevo. Si intasca le 20 rupie concordate in anticipo per i venti metri percorsi, approfittando della mia ignoranza della geografia locale. La sua risata al momento del congedo è però così comica da spegnere sul nascere la mia incazzatura.

Anche il Jallinwala Bagh, come il Golden Temple, è tristemente noto per un massacro. L’episodio è narrato in “Gandhi” di Richard Attenborough: questa volta il film l’hanno già fatto. Il periodo interessato è di molto antecedente gli avvenimenti del tempio d’oro, riguarda infatti l’India della dominazione inglese. Nel 1919 i britannici passarono il repressivo “Rowlatt act” per cercare di contrastare i crescenti disordini anti-britannici nella zona. In virtù della nuova legge, le autorità coloniali potevano arrestare senza prove i cittadini sospettati di sedizione. Quando una folla di manifestanti si radunò nel parco per dire “no” al nuovo editto liberticida, il generale inglese Dyer ordinò di aprire il fuoco sulla gente. Si parla di un conteggio complessivo di 2 mila persone fra morti e feriti. Anche al Golden Temple, fra i quadri che narrano la storia del popolo Sikh, ve ne è uno che rappresenta la scena del massacro. Sotto la specifica: fra le vittime, 347 furono i “nostri” morti e feriti. Questo è infatti uno dei “sacrifici per l’India libera” cui fa riferimento il cartello sul massacro del 1984.

Il Jallinwala Bagh è molto bello e pieno di visitatori. Su un muro di mattoni rossi sono ancora visibili i fori di alcuni proiettili, 28 in tutto. Su un grande pozzo è affisso un cartello in hindi, senza traduzione in inglese. Mi basta il numero: 120. Centoventi furono coloro i quali vi si gettarono per sfuggire al fuoco, finendo per annegare nel pozzo. Un disperato tentativo di aggrapparsi alla vita costò loro una morte ancora più tremenda. Per lavare i peccati del generale Dyer, un digiuno di Kippur – qui ad Amritsar – non sarebbe bastato.

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