Le radici della rabbia cecena
Dai primi scontri nel XVIII secolo alle guerre degli anni Novanta, la storia delle relazioni tra russi e ceceni
Non si può capire la rabbia cecena senza capirne le montagne. Li hanno forgiati come il freddo atlantico ha dato vita ai britanni, o le frontiere hanno creato gli americani. Le loro montagne sono state invalicabili per millenni. Gli eserciti potevano solo girare attorno lungo l’estremità orientale, attraversare l’Azerbaijan e il Dagestan sulle sponde del mar Nero.
Tra i due mari, c’era la catena del Caucaso, che poteva essere scalata solo a piedi e in estate. A sud dei monti sorgevano le meraviglie del mondo antico: i territori bizantini, la Persia, Alessandro il Grande, gli assiri. Ma al nord le popolazioni non avevano motivo di unirsi per resistere agli invasori: i villaggi erano autonomi, non riconoscevano autorità regionali, commerciavano e si derubavano tra di loro indifferenti al mondo esterno, protetti dalle montagne.
Tutto questo prima che arrivassero i russi. Espandendosi verso sud, prima in poche missioni esplorative sotto Pietro il Grande e dopo con forza sotto la guida di Caterina, i russi affrontarono tutti: i Nogais, gli ultimi discendenti di Gengis Kahn; i tartari della Crimea e infine i ceceni e le altre popolazioni del Caucaso.
Gli scontri tra gli eserciti degli autocratici, centralizzati, organizzati russi e i cavalieri, i saccheggiatori anarchici del Caucaso, furono tra le più stranianti sfide culturali della storia europea. I russi vinsero le prime battaglie, ma la replica cecena non si fece attendere.
“Nel villaggio di Aldy arrivò un profeta e iniziò a predicare. Presentò alle genti superstiziose e ignoranti la sua volontà, rivelando di aver avuto una premonizione”, scrisse un generale russo nel 1785. I russi marciarono su Aldy e la distrussero, ma il profeta – un uomo chiamato Ushurma, ora conosciuto come Sheikh Mansur – li stava aspettando. Metà dei 3 mila soldati russi impiegati morirono in un’imboscata mentre tornavano a casa, e Mansur divenne un eroe per i musulmani ceceni e gli abitanti del vicino Dagestan.
Tuttavia la resistenza di Mansur non durò a lungo. Dopo qualche vittoria, fu catturato e morì di tubercolosi in una prigione vicino San Pietroburgo. Fu ad ogni modo la prima personificazione del più grande nemico russo nel Caucaso: l’unione di Islam e nazionalismo.
Per la maggior parte del secolo successivo, i leader religiosi misero nuovamente gli uomini delle montagne cecene e del Dagestan a difesa dei territori contro l’invasione russa. La loro resistenza fu eroica, ma destinata al fallimento. Dopotutto si batterono contro la Russia, la stessa potenza che sconfisse Napoleone. Dopo la resa del 1859 l’Imam Shamil, l’ultimo condottiero, ammise: “Se avessi saputo che la Russia era così grande, avrei evitato di affrontarla”.
Shamil fu anche molto schietto a proposito dei ceceni, un popolo che avrebbe si batté per lui, ma si rifiutò sempre si seguire i suoi ordini:“Non c’è niente di peggio di questa spazzatura. I russi dovrebbero dirmi grazie, sono riuscito a ridimensionarli. Senza di me, avrebbero avuto solo una strada per scendere a patti con loro: sparargli fino all’ultimo, come si fa con gli animali”.
I russi lo presero alla lettera. Sebbene i ceceni vivessero nei loro territori, lo facevano come nazione sconfitta: i loro spazi migliori furono dati ai cosacchi e la loro cultura non ebbe mai possibilità di svilupparsi. Quando venne deposto il governo zarista, non era ancora stato fatto niente per trasformare le popolazioni delle montagne cecene secondo il modello russo e, dopo il 1917, il regime comunista promise di illuminarli nella creazione del nuovo Stato.
“Queste persone furono condannate ad un’incredibile sofferenza e all’estinzione,” disse un ufficiale, il commissario per le nazionalità, durante il congresso del partito del 1921. Sapeva di cosa parlava, perché proveniva a sua volta dal Caucaso. Il suo nome era Josef Djugashvili, meglio conosciuto come Stalin.
Nascosto tra le sue promesse c’era però un errore: i ceceni non avevano intenzione di vivere come cittadini sovietici. I banditi continuavano a nascondersi tra le montagne. Circa 35 mila persone vennero uccise nel 1931 e altre 14 mila sei anni dopo. Nel 1944 i ceceni erano ancora decisi a non piegarsi al regime. Stalin giunse alla stessa conclusione dell’Imam Shalim: dovevano essere eliminati.
Il 23 febbraio – un giorno festivo per l’Unione Sovietica, che celebrava l’Armata Rossa – le truppe si mossero, imprigionarono migliaia di persone e le misero su treni diretti verso l’Asia Centrale. Il 35 per cento dei deportati morì stipato nei vagoni durante il viaggio, oppure a causa durante del gelido inverno al loro arrivo in Kazakistan.
Questo è il momento decisivo della storia moderna cecena, quello in cui vennero strappati dalle loro montagne e scaricati come spazzatura in una terra inospitale. Anni dopo anche il governo russo ha riconosciuto questo atto come un genocidio. Durante la deportazione ogni ceceno perse qualcuno e quando i sopravvissuti furono riammessi nella loro terra natale nel 1959, molti dei corpi tornarono a casa con loro, dove vennero bruciati tra le montagne cecene, non in terra straniera.
In quel periodo difficile rimasero uniti grazie alla loro fede, al loro Sufismo Islamico, con i suoi legami di fratellanza e i suoi rituali segreti. La generazione cresciuta in Kazakistan ha però coltivato un seme di risentimento. Quel seme è germogliato nel suolo fertile dell’epoca di Mikhail Gorbachev ed è fiorito nella dichiarazione d’indipendenza sancita negli ultimi giorni dell’Unione Sovietica.
Una delle idee peggiori di Boris Yeltin fu pensare che una guerra lampo contro i ribelli ceceni avrebbe potuto aumentare la sua popolarità alla fine del 1994. I carri armati sovietici riuscirono a unire un Paese che fino poco prima era protagonista di lotte interne. Il potente esercito russo venne sconfitto da milizie improvvisate tra le strade di Grozny.
Ma questi erano i ceceni, popolazione ingovernabile anche da Aslan Maskhadov, l’uomo che li aveva condotti ad un’improbabile vittoria contro un esercito che aveva più uomini dell’intera popolazione cecena. Senza un nemico esterno a unirli e provocati da agenti infiltrati da Mosca, caddero preda di lotte interne tra islamisti, bande mafiose e nazionalisti laici.
Nel 1999 l’esercito ceceno invase il Dagestan, e il nuovo leader russo decise che ne aveva abbastanza. Il primo ministro Vladimir Putin non fece nessun errore, a differenza di Yeltsin. Non aveva nessuna intenzione di combattere per le strade di Grozny. La sua artiglieria rase al suolo la capitale cecena, facendo uscire allo scoperto gli abitanti e uccidendoli con esplosivi ed esecuzioni sommarie.
La simpatia internazionale verso la causa cecena scomparve. I ceceni, nel tentativo di trascinare la Russia verso dei negoziati, ricorsero alle più terribili tra le atrocità: sequestrarono un teatro a Mosca, poi una scuola a Beslan, fecero esplodere treni, autobus ed aerei di linea. Ma non funzionò, Mosca fu irremovibile. Migliaia di ceceni emigrarono, formando comunità in Europa occidentale, nel Golfo e in Medio Oriente.
Ed è così che i fratelli Tsarnaev sono finiti – attraverso Dagestan e Kyrgyzstan – a Boston, due ingovernabili uomini delle montagne, guerrieri disorientati, venuti per combattere una battaglia senza senso a migliaia di chilometri dalle montagne che una volta chiamavano casa.
Articolo di Foreign Policy per The Post Internazionale
Traduzione di Samuele Maffizzoli