Le mamme di Wall Street
Secondo un recente studio, le donne che vengono lasciate libere di gestire la propria vita autonomamente crescono figli più sani
Quando Marielle Jan de Beur si sposò, 13 anni fa, alcuni colleghi maschi insinuarono che sarebbe diventata inutile sul posto di lavoro. Ma col tempo, il matrimonio si è rivelato una delle mosse più fortunate per la sua carriera.
Quando lei rimase incinta, il marito lavorava per uno studio di architettura e guadagnava la metà di lei. La soluzione è sembrata ovvia a entrambi.
Oggi, a dieci anni di distanza, Marielle dirige il reparto di ricerca della società Wells Fargo e la vita che ha costruito con suo marito è confortevole e ordinata: due bambini, di 10 e 7 anni, una bella casa bianca e uno studio dove suo marito, il signor Langley, tiene i libri di lavoro sugli scaffali. Durante il giorno è lui a sbrigare le faccende domestiche, e a chi gli chiede di che si occupi risponde: “Sono un papà casalingo”.
Secondo una ricerca del New York Times del dicembre 2013, il numero delle donne che lavorano nel settore finanziario mentre i mariti si occupano della casa e dei figli è cresciuto di quasi dieci volte dal 1980 a oggi.
In un ambiente ancora fortemente dominato dagli uomini, le “empowered women”, o donne con più potere decisionale, costituiscono un gruppo piccolo ma in rapida espansione, e la loro capacità di ottenere successi lavorativi è direttamente proporzionale alla disponibilità dei loro mariti nel gestire le faccende domestiche.
Per le donne che lavorano nel settore finanziario e bancario, avere un marito che si prende cura della casa e dei figli è fondamentale per evitare distrazioni dal lavoro e poter competere meglio con gli altri dirigenti, molti dei quali, tra l’altro, sono uomini con mogli casalinghe. Secondo uno studio pubblicato il mese scorso dal Wall Street Journal, la quota di donne nei consigli di amministrazione delle società di New York è salita al 18,7 per cento nel 2012 rispetto al 15,6 per cento del 2006.
Tra l’altro, il fenomeno non si limita solo alle donne che lavorano in finanza, ma anche a quelle che appartengono ai ceti medi o bassi, come illustrato da uno studio dell’Institute of Development Studies dell’università di Brighton, nel Regno Unito, secondo il quale le donne più emancipate crescono i propri i figli in maniera più sana.
La ricerca ha analizzato la relazione tra due variabili associate alla libertà di azione delle donne, ovvero il tasso di scolarizzazione femminile e la proporzione tra la speranza di vita dei due sessi. Il campione analizzato prende in considerazione 116 famiglie che abitano in Paesi con reddito medio o basso tra il 1970 e il 2012. Secondo lo studio, queste due variabili sono collegate al 32 per cento dei casi in cui si è verificata una diminuzione della malnutrizione per quanto riguarda i figli della coppia.
Tuttavia, una ricerca condotta dall’International Food Policy Research nel 2010 dimostra come le donne abbiano ancora molta meno libertà di gestire le risorse familiari rispetto ai loro mariti. Dall’ambito agricolo a quello sociale, sono molte le iniziative che mirano a promuovere l’inclusione e l’emancipazione delle donne.
In Burkina Faso, un programma della fondazione Helen Keller International ha promosso la creazione di alcuni orti comunali dove le donne ricoprono ruoli principali, ribaltando le norme sociali ortodosse e al contempo migliorando le diete dei partecipanti.
In Brasile, l’organizzazione Bolsa Familia procura aiuti economici alle donne locali, aumentandone il potere decisionale nei campi che riguardano la sanità.
Alcuni studi, però, sostengono che ci siano anche degli aspetti negativi legati all’aumento delle libertà decisionali delle donne. É lo stesso Institute of Developmente Studies di Brighton, in uno studio a parte, a rivelare come i microfinanziamenti alle donne comportino un aumento delle probabilità che la persona in questione subisca minacce o violenze.
Lo scorso 21 settembre, Emma Watson ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite sulla parità di genere nell’ambito della campagna He for she (Lui per lei). La Watson, che è ambasciatrice dell’Onu per i diritti delle donne e la parità di genere dallo scorso 2013, ha detto: “Penso che sia giusto che io, come donna, sia pagata la stessa cifra con cui vengono pagati i miei colleghi maschi”.