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L’attentato di Barcellona e il franchising del jihadismo

Immagine di copertina
A officer walks past a fallen post cards display near the area where a van crashed into pedestrians. REUTERS/Sergio Perez

Il commento di Giorgio Ferrari sull'attacco che ha provocato 14 morti e oltre cento feriti nel capoluogo catalano

Stiamo assistendo – e i tragici fatti di sangue di Barcellona e di Cambrils non fanno che confermarlo – alla progressiva deideologizzazione degli attentati compiuti sotto il segno dell’Isis in favore di una sorta di franchising del jihadismo che solo una decina di anni fa sarebbe stato inconcepibile.

Nel 2004 il terribile attentato di Atocha a Madrid puntava – e in effetti vi riuscì – a sovvertire il pronostico elettorale a favore di Aznar, colpevole di aver aderito alla coalizione occidentale presente in Iraq. Una replica in scala minore ma non per questo meno terribile ed efficace dell’attacco alle Torri Gemelle a New York e al Pentagono a Washington, dove il bersaglio di al-Qaeda era ancor più eloquente nel suo simbolismo.

Da tempo gli obbiettivi dei lupi solitari sono cambiati: a Nizza, Monaco, Copenaghen, Londra, Tunisi, Parigi, Stoccolma, Istanbul e ora Barcellona le cellule jihadiste (nelle quali finiamo inevitabilmente per individuare dei foreign fighters rientrati in patria dopo il tirocinio in Siria, in Libia o in Afghanistan) colpiscono la gente comune, i turisti, i giovani, nonostante i servizi di sicurezza di siano stati significativamente potenziati nell’ultimo decennio in Spagna come in Francia, in Germania, in Italia.

A dimostrazione cioè che il “jihadista della porta accanto” può colpire senza preavviso e senza che la pur fitta attività di sorveglianza sia in grado di prevenirne con sicurezza le mosse, anche quando – e l’attentato di Barcellona sembrerebbe confermarlo – non siamo in presenza del terrorista fai-da-te bensì di una cellula ben addestrata.

Non dobbiamo stupirci di questo. In rotta da Mosul e da Raqqa, ridotti a pochi ranghi nella zona di Sirte, alcune migliaia di militanti del califfato cercano di riorganizzarsi nell’Africa subsahariana e puntano al cuore dell’Europa. Il bersaglio, dicevamo, è ormai defunzionalizzato, si colpisce comunque e dovunque, in un’intifada diffusa in tutto il continente al solo scopo di diffondere l’emergenza e la paura: niente più proclami di guerra e messaggi simbolici, né rappresaglie per questa o quella scelta politica dei singoli paesi. Solo la nuda automatica rivendicazione da parte dei siti e delle agenzie vicine al Daesh, ossia il più esemplare e anonimo dei nichilismi.

Le cifre di questa guerra molecolare, che la proprietà di accendere e immediatamente dopo far svaporare lo stato di allarme e di ansia in una sorta di condiviso oblio, parlano chiaro: dal 2001 a oggi i morti a causa degli attentati jihadisti in Europa occidentale superano i 500, in buona parte vittime di questo terrorismo low-cost al quale basta un minivan, una pietra, un coltello, un kalashnikov.

Alla deideologizzazione dell’attentato jihadista corrisponde tuttavia – neanche fossero neuroni a specchio – una simmetrica propensione europea all’assuefazione. Stragi come quella di Barcellona rischiano di non essere più commentabili, le analisi sulla prevenzione e la lotta al califfato cozzano contro il muro dell’ovvietà, la risposta civile è ogni volta più frettolosa e incapsulata in una liturgia sempre identica a se stessa.

Non c’è, si direbbe, un’Europa in grado di reagire a questa guerra asimmetrica e crudele, perché paradossalmente la  società civile finisce per derubricarla fra le fatalità statistiche, come l’aumento degli incidenti stradali durante gli esodi estivi. Dimenticandosi che fino a quando non si indurrà la comunità islamica a prendere parte attiva al processo di condanna del jihadismo esisterà sempre quella zona grigia nella quale si muovono indisturbati i soldati del radicalismo islamico.

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