La mutilazione genitale femminile
Un rapporto dell'Unicef parla di 30 milioni di bambine a rischio
“Non voglio che alcuna parte del mio corpo sia tagliata. Non voglio essere mutilata“. A parlare è Kheiriya Abidi, 10 anni, originaria della città di Boorama, nel nord ovest della Somalia. La pressione sociale su di lei cresce ogni giorno, e spesso è presa in giro dagli amici perché è “diversa”. In Somalia la pratica della mutilazione genitale femminile (Fgm) è profondamente radicata e quasi tutte le donne vi si sottopongono. Ma oggi è cresciuto il numero delle donne che, come Kheiriya, iniziano a dire no alla mutilazione genitale femminile.
Da un nuovo rapporto dell’Unicef, che si propone di fornire una panoramica sulle statistiche e le dinamiche di cambiamento in materia di Fgm, emerge che il numero di coloro che si oppongono a tale pratica non è mai stato così alto. Si tratta non solo di donne, ma anche di uomini che fanno conoscere il loro dissenso. In alcuni casi intere comunità hanno messo fine a questa tradizione centenaria.
L’analisi dell’Unicef, che mette a confronto i dati di 74 sondaggi condotti lungo un periodo di 20 anni in 29 Paesi dell’Africa e del Medio Oriente in cui la mutilazione femminile è praticata, sottolinea però che le donne che hanno subito questa pratica sono più di 125 milioni. Le bambine a rischio nel prossimo decennio sarebbero 30 milioni.
In alcuni Paesi la mutilazione riguarda le bambine al di sotto dei 5 anni, in altri le bambine tra i 5 e i 14 anni. I motivi addotti riguardano l’accettazione sociale: la Fgm sarebbe preziosa per preservare la castità, la bellezza e l’onore delle donne ed assicurare loro la possibilità di sposarsi. La specialista dell’Unicef per la protezione dei bambini, Francesca Moneti, ha ricondotto il fenomeno a una sorta di obbligo sociale: “Io lo faccio perché so che tu ti aspetti che io lo faccia e viceversa”.
Il rapporto mette in luce anche quali siano gli strumenti necessari ad eliminare la mutilazione genitale femminile. Per Francesca Moneti mettere in luce i vantaggi dell’abbandono di questa pratica provocherebbe una reazione a catena e una eliminazione relativamente veloce del fenomeno.
Il vicedirettore esecutivo dell’Unicef Geeta Rao Gupta ha dichiarato: “Quello che emerge dal rapporto è che la legge da sola non basta. La sfida adesso è lasciare che le donne e gli uomini parlino chiaramente e a voce alta per annunciare che vogliono la fine di questa pratica deleteria”.