La guerra santa delle parole
Il conflitto tra Israele e Hamas non si combatte solo sul campo, ma anche con le parole. Da qui è nata una retorica di propaganda
Mentre continuano le operazioni via terra a Gaza da parte dell’esercito di difesa israeliano (IDF) e i lanci di missili palestinesi verso Israele (leggi i nostri aggiornamenti continui su quanto sta avvenendo in Terra Santa), lo scenario bellico ha trovato una nuova forma di espressione anche dal punto di vista linguistico.
Sui social network e nei giornali, infatti, la propaganda di entrambe le parti ha coniato nel corso degli anni diversi termini per definire lo stesso concetto, nel tentativo di alleggerire le proprie colpe o enfatizzare qualche altro aspetto della vicenda. Una dialettica dura, condita di molti epiteti violenti e razzisti, entra quotidianamente nelle case degli israeliani e dei palestinesi.
Ecco un breve glossario dei termini più utilizzati:
“Non coinvolto”: Israele usa questo concetto per evitare di autoaccusarsi di compiere vittime civili tra la popolazione palestinese. “C’è un significato passivo nel termine non coinvolto”, ha commentato Etgar Keret, scrittore israeliano. “In questo modo stai dicendo che non è stato qualcuno che ha provato a distruggerti, ma allo stesso tempo non gli stai dando alcun tipo di identificazione. Non era neanche un bambino che stava imparando a suonare il piano, era solo qualcuno che non ti stava sparando”.
“Cittadini innocenti”: Hamas identifica le proprie vittime dandogli non solo un connotato nazionale, definendoli cittadini legittimi dello stato palestinese, ma anche preventivando la loro assoluta non colpevolezza.
“Balestina”: Da leggersi in chiave dispregiativa e di forte impronta razzista, è il modo con cui gli israeliani, principalmente legati all’ultra destra, definiscono i Territori Palestinesi giocando sulla pronuncia araba.
“Non ebrei”: In generale, questo epiteto viene usato dagli israeliani per definire tutta la popolazione palestinese.
“Bestia/Il nemico”: Connotati più violenti del precedente, in tempi di guerra e invasioni via terra tornano molto in uso per coinvolgere maggiormente la popolazione israeliana nelle operazioni dell’esercito.
“#GazaUnderAttack/#IsraelUnderFire”: Parole chiave usate prevalentemente su Twitter sono utili per convogliare il proprio sostegno e tenere aggiornati i sostenitori dell’una e dell’altra parte.
“Cosa fare e cosa non fare”: In un video diffuso su Youtube, la propaganda di Hamas ha stilato una serie di prerogative per chi volesse aiutare la causa palestinese: non postare foto di razzi che stanno per essere lanciati, non pubblicare foto di uomini a volto coperto e cominciare a utilizzare la formula “in risposta alle crudeli azioni di Israele, …”.
“Obiettivo mirato”: Come afferma lo stesso Etgar Keret, in ebraico non esiste una parola per definire “assassinio”. Per questo motivo si è deciso di optare su questo termine, utile, come nel caso di “non coinvolto”, a sviare l’opinione pubblica sull’identità della vittima.
“Scogliera imponente”: Traduzione letterale dell’attuale operazione israeliana (“Mivtza’ Tzuk Eitan” o “Operation Steadfast Cliff”), i riferimenti naturali rappresentano il 35 per cento dei nomi usati per missioni di guerra. “Usando forze naturali”, ha affermato Dalia Gavriely-Nuri, esperta di linguaggio di guerra, “si rimuove la responsabilità dei leader. Nessuno è direttamente responsabile di uno tsunami o di un terremoto. Si tratta di un processo psicologico che aiuta le persone coinvolte in un conflitto a sopravvivere ai diversi scenari di guerra”.