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La grande sconfitta di Israele

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Netanyahu attacca gli arabi nel giorno delle elezioni, ma la Lista Araba Unita è il terzo partito dopo Likud e Unione Sionista

Si è chiuso il sipario sullo “iom habehirot” israeliano, la giornata delle elezioni. Gli sfidanti Isaac Herzog e Benjamin “Bibi” Netanyahu esultano come due schermitori che, alla fine del duello, devono convincere l’arbitro che il punto spetta a loro. “Grande vittoria per il Likud, grande vittoria del popolo d’Israele”, festeggia Bibi. “Sono risultati che finalmente riporteranno i laburisti al potere”, gli fa eco il leader della sinistra. L’arbitro Reuven Rivlin, il presidente che dovrà decidere a chi assegnare l’incarico di formare una coalizione governativa, osserva sornione e ipotizza un governo di unità nazionale. Al calar della notte, le urne non avevano ancora designato con chiarezza un vincitore, ma la tornata elettorale del 17 marzo 2015, aveva già sancito uno sconfitto. Lo sconfitto si chiama “Israele”.

Israele ha perso perché il primo ministro Netanyahu, all’una e quarantacinque di ieri ha detto: “Gli elettori arabi si stanno recando in mandrie ai seggi. Le organizzazioni di sinistra li ammassano su autobus pagati con fondi stranieri. È una situazione da ordine 8”. L’ordine 8, nel linguaggio militare l’emergenza massima che comporta il richiamo dei riservisti, era per Bibi il modo più evocativo per mobilitare l’elettorato contro le pericolose “orde di arabi”. Per il parlamentare della lista araba unita Dov Khenin, un primo ministro che fa campagna contro il voto di una minoranza nazionale nel giorno delle elezioni supera una linea rossa: “Si chiama razzismo ed è ancora più grave in una giornata come questa in cui i politici dovrebbero esortare i cittadini ad onorare la democrazia andando a votare”.

E alla fine ha vinto Bibi. Il Likud ha guadagnato terreno inesorabilmente durante tutta la notte. A conti fatti i suoi seggi sono 30, non 27 a pari merito con l’Unione Sionista come sembrava dai primi exit polls. La sinistra di Herzog e Livni segue seconda con soli 24 seggi. Poi la “lista araba unita” con 14, il Kulanu dell’ex Likud Moshe Kahlon con 10, la destra nazionalista di Bennet con 8, i religiosi sefarditi di Shas con 7, United Torah Judaism 6, Lieberman 6, e la sinistra quasi estinta di Zehava Galon (già dimessasi) con 4.

Per quanto il presidente Rivlin abbia in antipatia Netanyahu, in virtù di antiche faide all’interno del Likud, il suo proposito di spingere per un governo di unità nazionale non può ignorare la possibilità che Bibi costruisca un governo tutto di destra, a partire dalla sua maggioranza relativa. E la rinnovata premiership di Bibi, in una maniera o nell’altra inevitabile, arriva dopo una campagna elettorale in cui il primo ministro ha fatto piazza pulita delle piccole ipocrisie che finora gli garantivano un barlume di rispettabilità a livello internazionale. A parte “le frotte di arabi trasportate a votare”, il giorno prima del voto Netanyahu ha rinnegato definitivamente il discorso di Bar-Ilan del 2009, in cui si diceva favorevole a negoziare una soluzione a due stati. “Se votate me, non ci sarà nessuno stato palestinese”, ha affermato con decisione.

Vinta la battaglia sul fronte interno, Bibi dovrà di nuovo voltarsi verso il Mediterraneo. Federica Mogherini, rappresentante debole di una politica estera europea sempre divisa, non gli starà sorridendo. Come riportato da questo giornale, le sanzione economiche contro l’occupazione israeliana hanno già fatto capolino sul tavolo del consiglio dei ministri degli esteri a Bruxelles. A scongiurarle rimaneva il buon viso a cattivo gioco del primo ministro, che fingeva di lasciarsi coinvolgere nelle trattative per la soluzione a due stati mentre sul terreno si dava da fare per comprometterla. Adesso che maschera e guanti sono appesi al chiodo però, è tempo che le cancellerie europee facciano i conti con la realtà: la soluzione a due stati non è più neppure un dogma di fede a cui prestare giuramento pur sapendolo poco probabile. La soluzione a due stati è una sfida alla leadership d’Israele che sta riuscendo a renderla praticamente impossibile attraverso l’espansione coloniale nei territori. Lo sa bene il presidente Obama, un altro che stamane non festeggerà la riconferma di Bibi.

In un sistema politico traghettato verso destra da un’egemonia culturale sempre più conservatrice, in cui il primo ministro fa ricorso a toni un tempo appannaggio delle frange più estreme, la novità di sinistra è la Lista Araba Unita. Avigdor Lieberman, l’ex buttafuori di origine moldava che ricopriva la carica di Ministro degli Esteri nell’ultimo governo Netanyahu, aveva cercato di eliminare gli arabi dal parlamento alzando la soglia di sbarramento a 4 parlamentari (di solito i partiti dei palestinesi israeliani, molto frammentati, si fermavano a pochi punti percentuali). Il risultato è che i partiti arabi si sono uniti e, forti di un ritorno al voto della minoranza che rappresenta più del 20 per cento della società israeliana ma che negli anni passati aveva boicottato le tornate elettorali, si sono imposti come terzo partito dopo Likud e Unione Sionista. Poco importa se Lieberman gli dava della “quinta colonna”, dopo che la sua ingenua riforma ha avuto l’effetto contrario a quello sperato. Sono i paradossi della politica mediorientale, che mischia democrazia ad appartenenze etniche ed occupazione. Gli arabi di Israele e i loro sostenitori dell’estrema sinistra ebraica sono tornati, decisi ad usare la leva di pressione democratica (che li vede demograficamente sempre più avvantaggiati) per promuovere il cambiamento.

 

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