La cortina di ferro oggi è verde
Da Lubecca a Trieste, un libro sul crinale della guerra fredda a 25 anni dal crollo del Muro di Berlino e dei regimi dell’Est
Prima di partire ce lo siamo chiesti più volte: perché seguire una rotta che diversi giornalisti e fotografi hanno già battuto? Non rischiamo di essere scontati?
Alla fine, però, abbiamo pensato che quando ci si sente che vale la pena di andare, si deve andare. A prescindere se le cose che si raccontano, con il testo o con la macchina fotografica, siano già state rovesciate sulla carta o sulla rete.
D’altro canto ognuno ha il suo modo di comporre una storia, un suo stile, una sua sensibilità. È così che a fine marzo ci siamo mossi verso il Baltico. Direzione Lubecca.
Da lì è iniziato il nostro reportage lungo la vecchia cortina di ferro, la linea che al tempo della guerra fredda spezzava in due l’Europa, politicamente, militarmente, economicamente.
Procedendo palmo a palmo sull’ex confine tedesco-tedesco e presidiando quelli tra l’Austria e i suoi vicini, siamo scesi in due settimane fino a Trieste, sul primo scorcio di Adriatico. Qui il link all’itinerario.
Se uno pensa alla famosa frase pronunciata nel 1946 da Winston Churchill – “Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico una cortina di ferro è calata sull’Europa” – potrebbe rilevare una stonatura nel nostro viaggio. Il punto di partenza è infatti Lubecca, non la Stettino evocata dall’ex primo ministro britannico.
Proviamo a spiegare i motivi di questa discrepanza geografica. Quando Churchill coniò il concetto di cortina di ferro – fu il primo a farlo – la città di Stettino, in Polonia, confinava con una Germania che non era stata ancora spartita, benché fosse già divisa de facto. Stettino all’epoca era quindi l’ultimo avamposto occidentale dell’Europa sovietizzata o in procinto di esserlo.
Successe poi che vennero create de iure la Germania ovest e la Germania est. Il che portò Stettino a lambire i confini di un paese, la Ddr, formalmente parte dell’Europa controllata dal Cremlino. Il punto di contatto tra Est e Ovest si spostò più in là. Ai margini e nei dintorni di Lubecca, appunto: era la città della Germania ovest più vicina alla Ddr, guardando la piantina a partire dal versante settentrionale della guerra fredda.
Da Lubecca ci siamo mossi progressivamente verso sud, seguendo dapprima l’andamento del vecchio confine tedesco-tedesco, oggi evaporato. Quello che abbiamo rilevato, in questi territori, è una rivoluzione geografica. Tanto le aree orientali dell’ex Germania ovest, quanto quelle occidentali dell’ex Germania est, erano periferiche rispetto a Bonn e Berlino est. Economicamente svantaggiate, gravate dall’onere di starsene lì, a poche spanne dal “nemico”.
Oggi è tutta un’altra dimensione. Crollato il Muro (il 9 novembre saranno venticinque anni esatti) e venuto meno il confine (con la riunificazione del 1990), questi distretti si sono ritrovati sulla mediana tedesca, cambiando completamente il rapporto mentale con il resto del Paese.
Quanto alla cosiddetta Ostalgie e alla Westalgie, vale a dire quei sentimenti di rimpianto verso la Germania est e la Germania ovest, a volte flebili e altre più robusti, sull’ex confine non si annusano. Per trovarli bisogna spostarsi in altre aree del Paese. A Bonn, Francoforte o Amburgo nell’ovest, dove c’è chi critica i costi della riunificazione. A Dresda, Lipsia o i quartieri orientali di Berlino nell’est, dove c’è chi con la (ri)saldatura tedesca ha inevitabilmente perso qualcosa.
A Berlino ci siamo andati, deviando dal corso della cortina. Il punto è che se non ci fosse stata la questione berlinese, non ci sarebbe stata la stessa cortina. Senza contare che fluiva, dentro Berlino, un’altra cortina. Di cemento. Il Muro.
Tra l’Austria e i suoi vicini (Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia), dove di confini ce ne sono, fisicamente tangibili, ma divenuti aperti grazie all’allargamento dell’Europa e dell’area Schengen, abbiamo annotato due tipi di situazioni. Ci sono sia forme virtuose di dialogo (viene in mente il gioco di sponda tra Vienna e Bratislava), sia contesti in cui le barriere linguistiche, economiche e culturali faticano a levigare squilibri e diffidenze.
Infine Gorizia e Trieste. Il passaggio lungo il confine orientale dell’Italia ci ha lasciato addosso la sensazione che queste due città, malgrado pesi demografici e tradizioni culturali diverse, siano rimaste un po’ spiazzate dall’apertura dei confini. All’epoca della guerra fredda traevano infatti vantaggi dalle frontiere: trasporti, dogane, piccoli commerci quotidiani, zone franche, sconti sui beni principali del paniere. Questo mondo si è chiuso, aprendo qualche nostalgia dell’ex Jugoslavia tra chi non ha saputo riadattarsi rapidamente ai tempi che corrono.
Insomma, lungo l’ex cortina si annidano tante situazioni diverse. Ma c’è qualcosa che le lega tutte assieme: l’esistenza di una dorsale ecologica, di foreste e parchi naturali, che si srotola proprio lungo il vecchio asse del confronto est/ovest.
L’origine di questa striscia verde risiede nel fatto che nel corso della Guerra fredda nessuno costruiva, lungo la frontiera. Né da una parte, né dall’altra. C’era una sorta di terra di nessuno, profonda qualche chilometro, che fungeva da cuscinetto psicologico tra paesi e sistemi rivali.
È così che la natura, essendo la mano dell’uomo impegnata altrove, ha potuto prosperare, dando vita a uno tra i più suggestivi paradossi dell’Europa: la nascita involontaria di un’oasi ecologica, sviluppatasi in anni di serrato confronto politico, sociale, economico, culturale e militare.
Beninteso: queste aree a cavallo tra est e ovest erano già verdi. Ma il passaggio di convogli e ronde, oltre alla presenza di guarnigioni e caserme, ne avevano spostato la tonalità verso il grigio. La rivoluzione del 1989 è stata anche cromatica, come dire.
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Matteo Tacconi è un giornalista italiano nato nel 1978. Segue i Balcani, l’Europa centrale e l’area post-sovietica. Scrive su diverse testate, tra cui Europa, Limes, Il Venerdì di Repubblica e Il Manifesto. Coordina Rassegna Est, portale dedicato all’Europa emergente. Ha realizzato tre libri. I primi due, Kosovo: la storia, la guerra, il futuro e C’era una volta il Muro: viaggio nell’Europa ex comunista, sono stati editi da Castelvecchi. Il terzo, Me ne vado a Est, realizzato con Matteo Ferrazzi, è stato pubblicato da Infinito Edizioni.
Ignacio Maria Coccia è un fotografo spagnolo nato nel 1974 che vive ad Ascoli Piceno. Nel 2003 è entrato nello staff di Grazia Neri. Ha pubblicato su diverse testate, italiane e internazionali, tra le quali Financial Times, Le Monde, Sportweek, National Geographic, L’Espresso, IL e Io Donna. Ha dedicato molta attenzione all’Europa dell’Est, al tema delle frontiere e delle periferie continentali. Dai suoi viaggi nella regione ha realizzato due libri: Ucraina, ritratto di una nazione e Kosovo, incertezze e sogni. Qui il suo sito.
Prezzo di copertina: 20 EUR Editore: Capponi, di Ascoli Piceno. Qui l’anteprima del libro. La home page del sito con info sulla campagna di prevendite online e su quella di crowdfunding con cui s’è stampato il libro
Il 13 novembre verrà inaugurata la mostra fotografica a Roma, al Goethe Institut, che rimarrà aperta al pubblico fino al 24 gennaio 2015.