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Make America Dem Again: la mission impossible di Kamala Harris

Immagine di copertina
Credit: AP

Paladina dei diritti ma anche sergente di ferro contro l’illegalità. La doppia natura di Harris non l’ha aiutata a imporsi come erede di Biden. Ora con il ritiro di Joe ha una grande occasione. Ma per conquistare la Casa Bianca dovrà riuscire a trovare una narrazione chiara e univoca degli Usa

Quando nel 2020 Kamala Harris fu scelta come vice di Joe Biden, sembrava quasi scontato vederla oggi, quattro anni dopo, candidata presidente, a prescindere dal risultato elettorale di quell’anno. Biden, infatti, dava l’idea di essere destinato a rimanere alla Casa Bianca per un solo mandato: non perché i democratici non credessero in lui, non perché fossero divisi, ma perché già in quell’occasione, nel mettere in campo un progetto di ampio respiro per gli anni a venire, il tema dell’età di Biden era all’ordine del giorno. 

Sembra quasi sia stato fatto un inutile e arzigogolato giro che ha portato i democratici ad arrivare in un modo confuso, decisamente insolito e anche abbastanza goffo alla decisione che quattro anni fa appariva essere la più scontata. 

Non abbastanza valorizzata secondo alcuni, non all’altezza secondo altri, apparentemente destinata a una seconda campagna come vice per ottenere eventualmente la riconferma in questo ruolo, Kamala Harris si trova dunque catapultata ai limiti del tempo massimo nell’agone elettorale di un voto che avrà l’attenzione di tutto il mondo, destinata a correre i 100 metri tutti d’un fiato per raccontare la sua storia e l’America che ha in mente. Non facile per chi agli occhi di molti democratici sarebbe dovuta ancora rimanere all’ombra di Biden, ancora meno facile in un partito che ha dovuto prendere la decisione shock di cambiare candidato in corsa. 

Due facce
Quella di Kamala Harris è una storia fatta anche di ritiri, passi di lato, cadute. Di difficoltà a trovare una narrazione univoca in un Paese che ha fatto dello storytelling elettorale un marchio determinante esportato – talvolta in modo acritico – in tutto il mondo. E l’ambiguità tra il sembrare la scelta giusta, dovuto più a un elemento di chiarezza quando i dubbi intorno a Biden erano sempre più martellanti, ed essere invece prima di tutto la scelta obbligata non aiuterà forse in questa situazione: nessun altro si sarebbe prestato a mettere la faccia in una situazione così inattesa, su nessun altro nome si poteva fare un lavoro per lanciarlo alla Casa Bianca se non su quello della vicepresidente, per quanto in ombra possa essere rimasta. 

D’altronde, apparentemente Kamala Harris incarna una figura simbolo per chi si batte per i diritti delle minoranze: forse non tanto l’essere nata in una famiglia benestante, figlia di un’oncologa indiana e di un economista giamaicano emigrati negli Stati Uniti, quanto l’essere una donna nera che in un Paese ancora pieno di paletti e stereotipi è riuscita a ottenere incarichi di primo piano fino alla vicepresidenza. 

Dall’altra parte, però, la sua visione politica e il suo principale ruolo prima di approdare nel 2016 al Senato, quello di procuratrice distrettuale di San Francisco prima e procuratrice generale della California, sono qualcosa che stridono con questo aspetto. In questa veste, infatti, Harris ha lanciato una grande lotta ai crimini violenti, che tuttavia le è costata da parte di diversi democratici dell’ala più progressista l’accusa di mettere in campo politiche particolarmente securitarie. Politiche securitarie che talvolta spaventano alcuni strati sociali della popolazione che ancora oggi denunciano abusi da parte delle forze dell’ordine americani, come i neri, un altro segno delle due diverse anime che, in qualche modo, convivono in Harris, nella sua storia e nella sua carriera. 

Gli anni da Numero 2
Fu proprio un abuso contro un nero a essere determinante nella scelta di Kamala Harris come vicepresidente. L’uccisione di George Floyd, la nascita del movimento Black Lives Matters e le proteste di massa che ne sono seguite portarono i democratici e nello specifico Joe Biden, fresco di vittoria alle primarie, a fare una scelta più chiara possibile nello sposare quel movimento che si stava diffondendo in tutto il mondo: prevalse così la scelta per una donna nera come vice, e quella donna nera fu Kamala Harris. 

Non era una scelta scontata. Le primarie vinte da Biden erano state particolarmente frammentarie. Un numero senza precedenti di candidati, nel vedere uno spazio politico e in assenza di un front-runner chiaro, aveva provato a lanciarsi nella partita. Tra di loro anche Kamala Harris, che in quanto senatrice dello Stato più popoloso, nonché maggior bacino elettorale dei democratici, era vista come una delle possibili favorite, ma la campagna non è mai decollata e, senza riuscire a posizionarsi sui maggiori temi, i sondaggi l’hanno vista colare a picco fino a portarla al ritiro prima ancora dell’inizio del voto. 

A pochi mesi da questa uscita di scena, tuttavia, è arrivata la designazione come vice, e la conseguente vittoria in un anno difficile, in cui l’America e il mondo furono sconvolti dal Covid e con la protesta del Black Lives Matter che lasciava un segno determinante. 

In un’epoca in cui la scelta del vice sembra avere un peso decisamente inferiore rispetto al passato, Harris si è lasciata alle spalle le incolori primarie ed è stata una figura che ha contribuito a coinvolgere l’elettorato nero in un momento particolarmente delicato. 

Difficoltà
La vicepresidenza, però, non è stata rose e fiori. Si potrebbero citare sondaggi, dati e quant’altro ma a spiegarcelo è un fatto: nonostante i dubbi e le preoccupazioni sull’età è – o meglio, è il caso di dire, era stato in un primo momento – stato ricandidato Joe Biden, seppellendo quindi le voci più o meno formali circa una staffetta tra i due a fine mandato. 

Intanto, il ruolo di vicepresidente è spesso destinato a compensare quello del presidente soprattutto quando questo è meno esperto, ma non è stato questo il caso di Biden, che ha una carriera ad alti livelli di lungo corso iniziata con l’elezione al Senato nemmeno 30enne nel 1972. 

Difficoltà nel trovare uno spazio e un profilo politico chiaro, problemi interni al suo staff, con dimissioni e persone che lo hanno definito un ambiente di lavoro non sano, hanno fatto il resto per non farla mai decollare nelle classifiche sulla popolarità. 

Gara di velocità
Oggi però la situazione è diversa, perché Kamala Harris si trova in maniera accidentale ma chiara e univoca a essere la candidata democratica alla Casa Bianca. 

Non deve ritagliarsi uno spazio politico, perché ha già quello naturale di alternativa a Trump, né dovrà emergere rispetto a nessun altro rivale interno. Ma deve riuscire a raccontarsi e spiegare le sue posizioni all’America e al mondo in una corsa di poco più di tre mesi, qualcosa di inedito nella recente storia americana. 

Quella sua doppia natura – da un lato la Kamala Harris simbolo e paladina dei diritti, in primis delle donne nere, ma anche strenua sostenitrice del diritto all’aborto e di numerose cause ambientaliste, dall’altro la Kamala Harris che in occasione di un viaggio ufficiale in Messico e Guatemala invitava i migranti a non andare negli Stati Uniti perché sarebbero stati respinti – è qualcosa che forse è stata determinante nel metterla in difficoltà, nel creare quelle ambiguità che in un epoca in cui sembra esserci poco spazio per le sfumature non le hanno fatto trovare il giusto spazio politico. 

Ma oggi, trovare una quadra, una narrazione unica, un candidato vice in grado di compensarla dove necessario, come Biden aveva fatto con Obama nel 2008, e fare tutto questo nella gara di velocità che la aspetta, è qualcosa di obbligato per Harris, come obbligato è stato scegliere lei, nonostante il percorso insolito e poco ortodosso. 

I fatti diranno se queste scelte forzate finiranno per rappresentare una debolezza, come può accadere alle decisioni arrivate tardi o dettate da imprevisti, o se invece saranno un modo per indicare una strada obbligata che lasci da parte quelle incertezze e quelle ambiguità che in passato sono costate care.

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