Un passato in disco e quelle notti a danzare: la bambina venuta dal Canada che oggi vuole fare la vice presidente
“La democrazia sta arrivando negli Usa” cantava Leonard Cohen nel 1992, quando dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Urss scelse di dedicare una delle sue rare canzoni politiche alla democrazia americana. Un ritratto ottimista quello di “Democracy” ma venato di ironia, pubblicato nel momento del trionfo della democrazia liberale. “Sono sentimentale, se capisci cosa intendo. Amo il paese ma non sopporto la scena”. Cohen non ha potuto commentare gli ultimi clamorosi sviluppi nell’esperimento democratico statunitense: è scomparso il 7 novembre 2016, giorno prima della vittoria alle elezioni di Donald Trump. Quattro anni dopo, quella che aveva descritto come “la culla dei migliori e dei peggiori” torna di nuovo al voto, a fare i conti con quello che rimane della propria eccezionalità.
Il ricovero e le rapide dimissioni dello stesso Trump hanno moltiplicato gli interrogativi su quello che accadrà nelle poche settimane che mancano al voto del 3 novembre, e anche successivamente. Dalla successione al presidente al ruolo dei grandi elettori, la malattia di Trump ha costretto commentatori e analisti a riprendere la costituzione per rispondere ai dubbi emersi negli ultimi giorni. Anche il secondo dibattito presidenziale previsto per il 16 ottobre è stato messo in dubbio, dopo che il quasi 78enne sfidante Joe Biden si è detto contrario a tenerlo se Trump, 74 anni, sarà ancora affetto da Covid-19. Ancora maggiori sono le incertezze riguardo il futuro dei due partiti della democrazia americana e di chi arriverà dopo i due anziani candidati.
Come in passato, il dibattito tra i due candidati alla vicepresidenza Kamala Harris e Mike Pence in parte ha riguardato anche questo, offrendo uno sguardo a quelli che potrebbero essere i prossimi volti della politica americana. Da Richard Nixon ad Al Gore, sono stati molti infatti i precedenti candidati vicepresidente che hanno scelto poi di tentare la scalata alla presidenza. Mentre Pence punta a diventare nel 2024 l’erede moderato del trumpismo, superando rivali come Tom Cotton e Nikki Haley, Harris vuole confermare la sua immagine di leader multiculturale in grado di conciliare i diritti civili e l’ordine pubblico grazie alla sua esperienza da procuratore, un compromesso che l’ha esposta a forti critiche da sinistra per essersi associata a politiche dure sulla sicurezza.
Quando lo scorso agosto ha annunciato la scelta della sua vice, Biden ha sostenuto che la nomina potrà ispirare “piccole ragazze” di colore a sognare di diventare presidente o vicepresidente. Tra i messaggi di complimenti arrivati sui social media alla prima donna nera a essere candidata vicepresidente si è fatto notare quello della canadese Westmount High School, la stessa da cui si era diplomato Leonard Cohen e a cui Harris si era iscritta dopo essere arrivata a Montreal all’età di 12 anni, seguendo la madre che nel 1977 si era trasferita nella città francofona per insegnare all’Università McGill e lavorare al Jewish General Hospital.
Un capitolo della sua vita che ha raccontato poco nelle interviste, ma al quale i media canadesi hanno dato grande risalto, ricordando quello di fine anni ’70 come un periodo di particolare fermento che deve aver contribuito a formare l’orientamento politico e l’identità multiculturale di Harris, figlia di un’oncologa indiana e di un accademico marxista giamaicano. Gli anni che l’hanno portata a diplomarsi nel 1981 sono anche ricordati come alcuni tra i più tesi politicamente nella storia recente canadese, culminati con il referendum per l’indipendenza del Quebec nel 1980.
L’istituto, all’epoca composto al 40 per cento da studenti neri, si distingueva nella città per essere una scuola pubblica nel quartiere più ricco della città, Westmount appunto, che accoglieva anche studenti da Petite-Bourgogne, quartiere all’epoca popolare detto la “Harlem del nord” e noto per aver cresciuto celebri jazzisti come Oscar Peterson. Anche se i gruppi di amicizie della scuola erano spesso divisi per linee razziali, diversi compagni di Harris raccontano di come riuscisse a comunque a orientarsi tra le diverse classi sociali ed etniche, oltre alla sua passione per la disco, che ballava con un gruppo femminile, le Super Six. Secondo testimonianze raccolte dal New York Times, a 13 anni organizzò una protesta dei bambini del vicinato contro il proprietario del palazzo che non gli permetteva di giocare nel cortile, riuscendo a fargli cambiare idea.
Nonostante i ricordi felici dei suoi amici e conoscenti, quello trascorso in Canada non sembra essere stata un periodo semplice per la Harris, sempre rimasta legata al suo paese. Nella sua autobiografia, ha definito come “perlomeno angosciante” il trasloco a metà dell’anno scolastico dalla California in una città straniera e francofona, coperta da tre metri e mezzo di neve. Nell’annuario invece, aveva scritto che il ricordo migliore delle superiori per lei era stato un viaggio a Los Angeles nel 1980.
Dopo essersi diplomata è infatti tornata negli States alla Howard University di Washington, una delle principali università afroamericane degli Stati Uniti e alma mater di molti esponenti di punta del movimento per i diritti civili. Un’eredità che ha tentato di rivendicare in uno dei suoi momenti più brillanti della sua breve esperienza nelle primarie democratiche, mettendo in difficoltà proprio Joe Biden, che negli anni ’70 in una delle sue prime battaglie al Congresso aveva guidato l’opposizione al “busing”, la politica con cui gli tribunali all’epoca tentavano di imporre l’integrazione razziale nelle scuole del paese facendo portare gli studenti neri in autobus nelle scuole di quartieri prevalentemente bianchi per desegregarle. “Quella bambina ero io” ha ricordato Harris nel primo dibattito dell’anno scorso, raccontando la propria esperienza personale di ragazza esposta alle tensioni di quell’epoca storica e alle strumentalizzazioni della politica.
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