Chi è Joshua Wong, il volto delle proteste di Hong Kong che a soli 23 anni sfida il dragone cinese
Chi è Joshua Wong, il volto delle proteste di Hong Kong
27 novembre 2019. Sono le 4 del mattino ad Hong Kong. Un ragazzo in vestaglia accende il computer e attende una chiamata Skype dall’Italia. A dire il vero, il 23enne Joshua Wong a Milano avrebbe dovuto esserci davvero, in carne ed ossa.
Ospite della Fondazione Feltrinelli. Dopotutto, soltanto un paio di mesi fa era stato in Germania, negli Stati Uniti e a Taiwan senza particolari problemi. Stavolta, però, per l’attivista hongkonghese – da anni al centro dell’attenzione internazionale per il suo ruolo di spicco nelle proteste nella metropoli asiatica – è andata molto diversamente.
L’Alta Corte di Hong Kong ha infatti respinto il ricorso di espatrio per il viaggio europeo di Wong – dichiarandosi preoccupata che il giovane, libero su cauzione da fine agosto ma sotto indagine per aver partecipato a manifestazioni non autorizzate, potesse darsi alla fuga una volta raggiunto il Vecchio Continente. Lasciandolo a terra, in quella Hong Kong che da anni è al centro di ogni suo pensiero.
Joshua Wong al centro della polemica italiana
Joshua Wong ha da poco compiuto i 23 anni e l’aspetto di un teenager un po’ nerd, ma la sua fedina penale è quella di un veterano: arrestato ben 8 volte, e per 3 volte condannato al carcere – episodi che sembrano scocciarlo soprattutto perché l’hanno costretto a ritardare la laurea. Può vantare un documentario a lui dedicato (chiamato eloquentemente Teenager vs Superpower), è stato candidato a Person of the year nel 2014 e preso in considerazione per il Nobel per la Pace nel 2017. La sua figura in Italia è in questi giorni al centro di una polemica accesissima che vede un ministero degli esteri solitamente silenzioso contrapporsi alla diplomazia cinese.
Dopo essere stato invitato in videoconferenza a parlare al Senato da Fratelli d’Italia e il Partito radicale, il portavoce dell’Ambasciata cinese in Italia si è infatti scagliato contro l’attivista , commentando che “Joshua Wong ha distorto la realtà, legittimato la violenza e chiesto l’ingerenza di forze straniere negli affari di Hong Kong” e chiamandolo “un clown saltellante”. Ma, soprattutto, dicendo che “i politici italiani che hanno voluto fare la videoconferenza” hanno commesso un grave errore, esibendo “un comportamento irresponsabile per cui siamo fortemente insoddisfatti ed esprimiamo la nostra più ferma opposizione”. A protestare per la reazione cinese non sono stati soltanto partiti quali Fratelli d’Italia, Partito Democratico e Lega, ma anche la Farnesina. Secondo la quale le dichiarazioni dell’Ambasciata cinese “sono del tutto inaccettabili e totalmente irrispettose della sovranità del Parlamento italiano”.
Meno severo è stato il ministro degli Esteri grillino Luigi di Maio, che ha affermato: “I rapporti con il governo cinese sono sempre ottimi. Allo stesso tempo in Parlamento ci sono tante attività che si svolgono ogni giorno ed è giusto rispettarle. Già a inizio novembre, a Shanghai Di Maio aveva rifiutato di prendere una posizione su Hong Kong, affermando che “l’Italia non compie ingerenze negli affari interni alla Cina” – mettendo tra l’altro in gran difficoltà la Farnesina. Sulla discussione si staglia anche la luce sinistra delle recenti posizioni assunte dal garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo.
Sul blog di Grillo, infatti, da tempo si susseguono post in cui si negano completamente le severe violazioni dei diritti umani in Xinjiang – regione semiautonoma della Cina occidentale dove vive un’ampia popolazione turcofona e musulmana – pur recentemente dettagliate dal New York Times nei suoi poderosi Xinjiang Papers.
Joshua Wong, da quattordicenne contrario alla propaganda a voce globale per la democrazia a Hong Kong
Descritto simbolicamente dal New Yorker come “figlio degli spasmi dei disordini passati e probabile architetto di quelli che verranno”, Wong è nato nel 1996, un anno prima del passaggio di Hong Kong da colonia britannica a regione amministrativa speciale della Cina.
La sua storia personale è legata a doppio filo con quella delle ribellioni a Pechino che da anni animano le vie della città. Per lui, tutto é iniziato nel 2011, quando il governo cinese ha annunciato l’introduzione di alcuni corsi di cosiddetta Educazione Nazionale nelle scuole di Hong Kong: un corso non dissimile a quello già insegnato da anni nella Cina continentale e il cui curriculum criticava, tra le altre cose, sistemi multipartitici come quello che vige proprio nella regione amministrativa speciale.
Il timore era che si trattasse di una nuova infiltrazione del Partito per erodere il sistema politico più liberale vigente ad Hong Kong fino a quel momento. Non è raro che l’indottrinamento nei regimi parta dalle scuole: in questo caso, uno dei libri di testo proponeva il Partito Comunista come “progressista, unito e altruista”, mentre altri riscrivevano parti della storia cinese, glissando sulla Rivoluzione culturale e Piazza Tiananmen.
A Joshua Wong, allora 14enne, e ai suoi compagni questo non è andato giù. Al punto da fondare il movimento Scholarism, riuscendo ad occupare per giorni la sede del Parlamento ed ottenendo un consenso tale da costringere il governo a rinunciare all’Educazione Nazionale.
E poi la Rivoluzione degli ombrelli dell’autunno 2014, le tende piantate a due passi dai palazzi del governo, il primo arresto, la fama internazionale. Il carcere. E di nuovo il ritorno in piazza di una marea di manifestanti a partire dal marzo 2019 – inizialmente per contrastare una legge che avrebbe permesso di estradare latitanti hongkonghesi verso tribunali controllati dal Partito comunista cinese, sul continente. Anche una volta sospesa la proposta di legge, le proteste non si sono però placate, portando fino a 2 milioni di persone in piazza in certi momenti e sfociando in un movimento più ampio e articolato le cui richieste si moltiplicano.
Wong spiega che gli occidentali non sempre comprendono l’idea di un movimento senza leader. Lui si trova spesso ad interpretare questo ruolo con la stampa, che lo conosce per il suo attivismo passato, ma le proteste del 2014 gli hanno insegnato una lezione importante: individuare un leader significa esporlo alle persecuzioni politiche. A colmare la mancanza di figure di riferimento interviene allora piuttosto la tecnologia: app come Telegram, con canali protetti tramite cui si possono elaborare rapidamente strategie collettive. Anche la fiducia reciproca tra i manifestanti ha un ruolo fondamentale: non c’è bisogno di un leader che comandi e coordini dall’alto se tutti sono in possesso delle stesse informazioni, condividono gli stessi obiettivi e sono solidali e fiduciosi verso i compagni.
Joshua Wong e il monito per l’Italia
Quando Joshua viene invece incalzato rispetto alle violenze provenienti dalla parte dei manifestanti, risponde senza scomporsi che se queste avvengono è per la diffusa percezione che le proteste pacifiche non siano piú sufficienti. Lo riassume uno slogan provocatorio, emerso durante le manifestazioni: “siete stati voi ad insegnarci che le proteste pacifiche sono inutili”. Sottolinea anche come i manifestanti colpevoli di violenze siano sempre stati chiamati a risponderne in giudizio, mentre nessun poliziotto è mai stato indagato, e men che meno punito, per gli abusi.
In tutto ciò, il ruolo di Wong è cambiato: da figura chiave delle proteste nel 2014, oggi si riconosce piuttosto come volto internazionale della lotta per la democratizzazione di Hong Kong. La sua azione si svolge molto più tra palazzi di governo, interviste e conferenze che tra i manifestanti – lo scopo è quello di volgere lo sguardo dell’opinione pubblica internazionale verso quanto sta accadendo nella sua città, con la speranza di raccogliere il sostegno dei vari governi alla causa di Hong Kong.
È consapevole di venire dipinto dai giornali nazionali cinesi come una spia o un agente della CIA, ma sottolinea che i suoi sforzi nel contesto internazionale sono volti soltanto al coinvolgimento di più attori possibili a supporto di Hong Kong, in modo da creare pressione su Pechino. Ritiene, inoltre, essenziale che i leader mondiali possano fare una scelta informata nella loro collaborazione con le autorità cinesi – mostrandosi deluso nel leggere che il nostro ministro degli esteri abbia affermato che l’Italia non ha intenzione di commentare questa situazione. Anche nell’intervista esclusiva ottenuta da TPI a Hong Kong, Wong continua a chiedere all’Italia una maggiore consapevolezza sul ruolo che può giocare nella violazione dei diritti umani.
E lancia l’allarme: l’esperienza di Hong Kong dovrebbe essere un monito per chi entra in rapporti con la Cina, mostrando come una crescente dipendenza economica – in Europa rappresentata soprattutto da progetti come la Belt and Road Initiative e le discussioni sulle tecnologie 5G – limiti il campo di azione dei paesi. “Al mondo, nessun pasto è gratis”, avverte.